E' vero, Internet ha una grossa responsabilità in quella che molti artisti chiamano "la morte della musica moderna". Eppure, nessuno può negare che solo vent'anni fa non avremmo mai neanche lontanamente immaginato di possedere sulla nostra scrivania un accesso praticamente immediato alla diffusione mondiale, e di poter fruire di contenuti prodotti a centinaia di chilometri di distanza con un paio di clic.
Ed è probabile che la dimensione di una "musica moderna" certamente ferita, debba forzatamente passare per il mezzo della rete: è il caso della diffusione a macchia d'olio del metal più moderno, la cui etichetta più frequente è quella del djent, delle chitarre rigorosamente con più di sei corde, delle atmosfere fra il death e il groove.
Sarà proprio il web a permettere fenomeni rari ma appaganti, come la diffusione internazionale di realtà di battesimo non anglo-americano: è il caso di nomi come Gojira, Meshuggah, David Maxim Micic, e, lanciati sulla strada della fama mondiale, i francesi Uneven Structure. Con una carriera cominciata in tempi non sospetti nel 2008, con la pubblicazione di 8" raccolta di riff estrapolati dalle sessioni per il primo vero album "Februus", il giovane gruppo francese, ora alla maturazione definitiva, pubblica il secondo lavoro "La Partition". Non fatevi ingannare dal titolo: la dimensione del disco e della band è decisamente internazionale, con testi in inglese e atmosfere ben radicate nelle influenze dei già citati mostri sacri del prog/death, con un gusto per il wall of sound e per l'ambiente che richiama ulteriori nomi come i Dillinger Escape Plan.
"La Partition" segna un'evoluzione piuttosto marcata rispetto al lavoro precedente, pur lasciando decisamente riconoscibile l'impronta della band, molto votata al lato più pesante del djent. Ma se "Februus" era più incentrato sul riff, "La Partition" risulta decisamente più centrato, con delle solide fondamenta su una storia da raccontare, attestandosi come concept album, con una maturità musicale che vede finalmente la chiusura del cerchio. Forse più heavy, forse più pieno di "Februus", certamente il disco risente di una visione più matura di un gruppo già segnato dai cambi di line up, l'ultimo dei quali vede l'ingresso del terzo chitarrista Steeves Hostin, la cui poliedricità e attitudine energica di certo giovano all'aspetto compositivo e performativo degli Uneven Structure.
Gruppi di brani accomunati dallo stesso concetto di base, in "La Partition" trovano spazio anche dinamiche altalenanti ("Incube"), intrecci di corde, poliritmi, strutture complesse ("The Bait") e alternanza fra una voce clean molto risonante e un growl poderoso. Discorso a parte per la produzione, decisamente peculiare: ci si aspetta, sulla carta, da una band che affonda le radici nel prog/djent, un lavoro levigato al limite dell'artificialità, con voci perfettamente corrette ed incastonate, chitarre tight e aggressive à la Periphery. Non è questo il caso: l'amosfera generale è satura delle varie layer, dal basso agli arpeggi pieni di riverbero, dai china aperti ai frequenti pad; il panorama sonoro si mescola riempiendo tutte le frequenze, e, complice il ritmo generale, dando alfine un sentore quasi stoner. Parallelamente, la voce viene trattata con un rispetto quasi incredibile: non c'è traccia di pitch correction (e un vocalist del genere non ne ha bisogno), nè di compressione e processamento fuori dai canoni: suona viva, quasi dal vivo, aggressiva, pronta ad uscire dalle cuffie.
In generale siamo davanti ad un disco forse complesso, certamente di non immediata fruibilità anche a causa della continua pressione sonora, ma che riesce a mantenere alto – fattore non trascurabile – l'intreccio musicale, lasciando quel fischio nelle orecchie figlio di un suono devastante, ma alla fine così appagante.