Leprous
Malina

2017, InsideOut Music
Prog Metal

Con "Malina" I Leprous lo fanno di nuovo: prendono l'ascoltatore, lo catapultano da qualche parte, in un posto lontano e sconosciuto, nell'inesplorato che incuriosisce e terrorizza, lasciandolo in balía di emozioni irrazionali e ignote. 
Recensione di Cristina Cannata - Pubblicata in data: 24/08/17

Leggi qui la nostra intervista alla band! 
 
 
Da ben sedici anni a questa parte i Leprous ci tengono a mostrarsi per quello che sono, una band progressive nel senso più limpido del termine. A partire dal loro primissimo “Tall Poppy Syndrome” i norvegesi di Notodden hanno iniziato a plasmare il proprio stile, torcendolo e impastandolo, album dopo album, in una continua, perenne e inarrestabile evoluzione musicale. “Malina”, il loro ultimo e quinto album, non fa altro che riconfermare la cosa: i Leprous continuano a spostare un pelo più in là la famosa “asticella”, impegnati in una ricerca attenta e disperata della perfezione, dell’eleganza, dell'espressività, della completezza.
  
La ricerca di cui sopra passa in primo luogo dal sound, che in “Malina” si fa più coeso e compatto, più serio e composto. Definizioni che si sposano felicemente con la classe e la finezza tanto pretesa dal gruppo. Allora, con le loro camicie grigie abbottonate fino al collo e ben sistemate dentro i pantaloni con tanto di cinta nera in pelle, la band tira fuori dal ripostiglio il calderone e inizia a sperimentare: prende gli elementi comunemente riconosciuti come componenti tipici del tipico stile Leprous (rintracciabili senza particolare fatica in tutto l’album) e ne aggiunge altri, non troppi e tra l’altro abbastanza basilari. Tanti riff -più o meno pesanti-, degli accenni di chitarra acustica, rinnovati tocchi di tastiere, un pizzico di elementi elettronici, qualche nuance più ambient e un profumo di jazz: tutto sapientemente dosato, guidato dall’estremo senso dell’estetica che storicamente contraddistingue la band. A ciò si aggiunge la novità, la sfumatura sinfonica con  l’introduzione degli archi. Mossa furba: il violoncello -affidato all’esecutore canadese Raphael Weinroth-Browne-, stratificato in modo tale da creare una sezione compatta, assicura una grandissima raffinatezza, mai sdegnosa, che ben si bilancia con gli elementi più heavy che comunque la band non tralascia. Ed ecco che, tutto ad un tratto, il sound si allarga, si fa più eclettico e fresco, più delicato, entra in una nuova interessantissima e maestosa dimensione. “Malina” cambia la faccia dei Leprous, ma non in maniera eccessiva: la rende piacevolmente più leggera rispetto al passato, più rock. “Malina” è un album progressive rock. 
 
Attenzione, che questo non venga visto come un “ammorbidimento” della band che possa far scappare a gambe levate i metal addicted: le radici prog/post metal sono ancora presenti (probabilmente in “Mirage” c’è uno dei riff più metal che loro abbiano mai partorito), ma sapientemente rivisitate per rendere l’album più “accessibile”, più “user friendly”. Una maggiore intellegibilità che passa anche da una studiata ridefinizione della struttura delle canzoni, che ritorna ad essere più classica (strofa-ritornello) e più facile da seguire. Ciò non si traduce con “canzoni piatte”, tutt’altro, e brani come “Stuck”, “Captive”, “Illuminate” ne sono buoni esempi.  “Malina” è complessità accessibile. 
 
“Malina” sancisce una fase di maturità per la band, testimonianza di una definita stabilità dopo continui cambi di line-up: il batterista Baard Kolstad, il bassista Simen Daniel Lindstad Børven e la seconda chitarra Robin Ognedal non sono meri esecutori, ma iniettori di personalità e innovatività. L’attenzione al dettaglio è certosina: tutto viene pesato e ripesato ancora, non c’è niente fuori posto. E così la band crea molto in quest’album, estesi orizzonti musicali, ora po’ eterei, ora po’ tangibili, attraverso melodie estreme e riff astratti. A contribuire attivamente alla causa concorrono sia il violoncello regalando quel tocco di imponente e solenne drammaticità che cadenza saggiamente l’autorevolezza sia la voce di Einar Solberg, destinata a diventare leggenda nel mondo prog. Qui il frontman della band -che dà prova di essere un artista a tutto tondo curando i testi, scrivendo le parti di violoncello, progettando ogni minimo dettaglio- apre le porte del fantastico mondo della sua invidiabile estensione vocale: rispetto al passato, mette da parte lo scream (salvo rare occasioni) e propone una voce più che atletica, quasi acrobatica, prepotentemente impiegata come un vero e proprio strumento al limite delle potenzialità. Una voce difficile da capire, che confonde, indossando maschere diverse e trasformandosi man mano che si va avanti per il disco: prima urla, poi piange, cade, si rialza e reagisce, si accascia di nuovo, si arrabbia, si fa supponente, si emoziona, esplode. In “Malina” la voce guida la musica e al contempo si fa trascinare da essa, in una passeggiata mano nella mano all’insegna della più alta tensione. Rispetto ai precedenti lavori, qui c’è più spazio per le melodie e la giusta attenzione alla musica.
 
“Bonneville” è un inquietante corridoio d’accesso all’album: non di immediata comprensione, la calma apparente iniziale si tramuta in un’ansiosa paura scandita da un inquietante gioco di intrecci tra gli hi-hat di Kolstad e la voce di Solberg. Si inizia sin da subito a notare l’uso sapiente della batteria, che in più occasioni tesse gli scheletri su cui ricamare tutto il resto. “Stuck”, il secondo singolo estratto, porta ad un’iniziale destabilizzazione con un riff punk rock, un’atmosfera quasi spensierata che incontra ad un testo particolarmente cupo e una voce seria, sostenuto dalla serietà del violoncello che qui inizia ad affermare con prepotenza la sua presenza, controbilanciato da qualche sprazzo di elementi elettronici. Scelta perfetta come primo singolo, “From The Flame” la canzone più catchy dell’album, quelle che ascolti in ripetizione almeno sette volte al giorno per un numero indefinito di giorni. E qui si ritorna al discorso dell’accessibilità: nonostante la canzone sia breve ed entri nella testa di prepotenza (accessibile), non si tratta assolutamente di una canzone semplice, anzi si raggiungono qui alti livelli di tecnicismo (vedi il verso in 13/8). “Captive” (che richiama alla mente il caro vecchio “Bilateral”) presenta riff prog old style, un ritmo molto veloce che altalena con i lunghi cantati, in contrapposizione al sound più soft e perenne di “Illuminate”. “Leashes” calma le emozioni solo apparentemente per spianare la strada alla emozionante “Mirage” che vede la voce dar spettacolo, coronata da un bellissimo giro di basso e chitarre finali che esplodono prepotentemente. La voce torna protagonista nella titletrack, sostenuta dalle corde tristi di Weinroth-Browne e da impetuosi tom, e si fa poi più dolce in “Coma” che, dopo un riff pesantissimo, si abbandona ad un bellissimo gioco di violoncello. “The Weight Of Disaster”, una prog track a tutti gli effetti con profumi jazzeggianti, e “The Last Milestone” sono la più degna chiusura che i Leprous potessero dare a questo album. Una sigla solenne, in particolare l’ultimo brano che appare come inno etereo, solamente voce e archi. Una canzone emozionante, fragile, romantica. 

Romantico è il tono di tutto l’album, nella definizione artistica che si trova nei libri di storia e letteratura, sia per quanto riguarda i testi che per la musica. “Malina” è espressione del tradizionale lato oscuro, inquietante e mesto dei Leprous: riesce a parlare dell’arrendevolezza della malinconia attraverso il livello di potenza più energico possibile della musica. “Malina” è tensione pura, su tutti i livelli: accessibilità versus eccezionale livello di tecnicismo, urgenza emotiva versus modi espressivi contraddistinti da un iperbolico desiderio di perfezione, composizione e manipolazione versus performance. “Malina” è tensione progressiva, che si traduce in complessità imponente. I Leprous lo fanno di nuovo: prendono l’ascoltatore, lo catapultano da qualche parte, in un posto lontano e sconosciuto, nell’inesplorato che incuriosisce e terrorizza, lasciandolo da solo in balìa di emozioni irrazionali e ignote. 
 
 





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