Letlive
The Blackest Beautiful

2013, Epitaph Records
Postcore

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 03/08/13

“We're here to fulfill every one of your dreams”.

The Blackest Beautiful”, il nuovo album dei losangeleni Letlive (o meglio letlive., come la stessa band ha deciso di scrivere il proprio monicker) inizia praticamente con questa frase, una dichiarazione d'intenti senza malcelata modestia. Chi ha avuto il piacere di ascoltare il precedente “Fake History”, forse il vero capolavoro della scena post-hardcore degli anni '10, sa già che a Jason Aalon Butler e compagni non manca certo la faccia tosta per asserire una cosa di questo tipo. E a dirla tutta, per un aficionado del genere, oggi i Lelive sono la band di riferimento del genere, l'unica ad aver raccolto la pesantissima eredità dei Glassjaw, senz'altro la più abile nel cavalcare la sottile linea tra aggressività e melodia.

Proprio la melodia è una delle parole chiave di “The Blackest Beautiful”, ma questo non significa affatto che i nostri si siano ammorbiditi e abbiano preso la strada più breve verso il successo radiofonico. Anzi, nel caso (paradossale) dei Letlive la scelta si tramuta in una minore immediatezza del prodotto finale, che necessita di numerosi ascolti per essere apprezzato come merita. A partire dall'opener e primo singolo “Banshee (Ghost Fame)” si entra in un vortice di follia che di primo acchito può sembrare incomprensibile: cambi improvvisi, pause e ripartenze, melodie ribaltate dallo scream, strofe che lambiscono ritmiche hip hop seguite subito dopo da ritornelli canticchiabili persino sotto la doccia. Si sente lo stile di “Fake History”, ma il concetto tanto caro ai Letlive viene estremizzato fino ai suoi limiti, tanto che si arriva a chiedersi se un pezzo del genere abbia un senso logico. “Empty Elvis” non cambia troppo le carte in tavola, con una partenza squisitamente hardcore che si tramuta in linee melodiche accattivanti ma mai stucchevoli, in un crescendo travolgente.
 
Ogni singolo pezzo contiene elementi degni di nota e piccole chicche, come quel “C'mon” di michaeljacksoniana memoria in “The Dope Beat”, o ancora la rabbia trasmessa dalla seguente “The priest and used cars”, la più veloce del lotto. C'è spazio per qualcosa di più ricercato in “Virgin Dirt”, brano che si colloca sulla stessa lunghezza della bellissima “Muther” (uno dei singoli estratti da “Fake History”), una sorta di lento nello stile fuori di testa dei Letlive; ma anche i sette minuti abbondanti della traccia di chiusura, “27 club”, che inizia come il più classico dei brani post-hardcore per poi evolvere in una fase di calma apparente ed esplodere di nuovo nel finale, capace di sprigionare una potenza piacevolmente sorprendente.

Se tutta la band si dimostra in gran forma, una menzione speciale va obbligatoriamente a Butler, cantante dalle doti eccezionali, degno successore di Daryl Palumbo dei già citati maestri Glassjaw. Quella del barbuto cantante è una prova vocale da scolpire sulla roccia e tramandare ai posteri: al di là del classico alternarsi tra clean e harsh vocals, che peraltro viene arricchito di tutte le sfumature possibili (lo giuro, in piccoli tratti il nostro Jason è così incavolato che mi ha fatto tornare in mente il Phil Anselmo di “Slaughtered”!), la sua voce ci accompagna continuamente come se stesse raccontando una storia, con momenti parlati, accenni al rap, urla belluine e dolci melodie.

E cosa chiedere di più, quando tutto questo repertorio vocale è accompagnato da testi particolarmente brillanti? Butler è abilissimo a parlare di attualità, non risparmiando velenosi attacchi alla cultura del suo paese, basata sul profitto a tutti i costi, come in “White America's Beautiful Black Market” (con un “it looks like Uncle Sam finally put his money where his mouth is” che riassume tutto) e “That Fear Fever”. Ma lo è ancora di più nel confrontarsi con i suoi demoni interiori, con il suo rapporto tutto particolare con la religione – vedasi “27 club” – e con le relazioni sentimentali, nelle quali il lieto fine è lasciato alle favole (la chiusura di “Dreamers Disease” in tal senso è clamorosa).

Era difficile ripetersi dopo “Fake History”. I Letlive hanno evitato le operazioni di copia/incolla, componendo un disco (serio candidato al titolo di LP dell'anno) che evolve il sound dell'album precedente, smussando alcuni angoli senza perdere un'unghia di potenza ma arricchendolo con alcune soluzioni che donano profondità e longevità alla loro proposta. Il tutto, va ricordato, restando quegli adorabili “cazzoni” che tanto ci fanno divertire e realizzano i nostri sogni (musicali).



01. Banshee (ghost fame)

02. Empty Elvis

03. White America's beautiful black market

04. Dreamers disease

05. That fear fever

06. Virgin dirt

07. Younger

08. The dope beat

09. The priest and used cars

10. Pheromone Cvlt

11. 27 club

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