Il disco pulsa di femminile, di vita. Un concetto in disaccordo con gran parte dell'outfit stilistico di una formazione il cui funereo drone/doom dal colossale gravame ritmico, che annovera collaborazioni con esponenti del black meno avvezzo ai compromessi, come Malefic (Xasthur), Wrest (Leviathan, Lurker Of Chalice) e Attila Csihar (Aborym, Mayhem, Tormentor), infonde, da sempre, sensazioni di intrappolamento, di disperazione, di un approccio spesso antitetico all'esistenza: il confinamento dello spazio, sia fisico che psicologico, costituisce il principio eloquente di tale idea. Nell'EP "Oracle" (2007), Csihar recitava vecchi incantesimi ungheresi destinati ai morti all'interno di una bara chiusa a chiave: approccio affascinante ed esemplificativo, indubbiamente.
"Life Metal" segna uno scarto, importante. "Beetween Sleipnir's Breaths" inizia e finisce con il nitrito del cavallo a otto zampe di Odino, un modalità di partenza e arrivo forse illogica per un combo così dolorosamente serio; tuttavia il senso dell'assurdo e una sorta di umorismo autoreferenziale permea la storia dell'act sin dalle origini. Già l'opener, dunque, familiare e strana al medesimo istante, corrobora l'impressione che qualcosa di peculiare bolle in pentola: allignano distese di forza positiva, si avverte un dinamismo crescente in assenza di azione e movimenti umani. I musicisti appaiono accessori rispetto agli spiriti auditivi che li comandano: l'islandese Hildur Guðnadóttir, che si occupa della sezione vocale, possiede un timbro che lenisce e rilassa, percezioni di sollevamento e stupefazione assiepano le intercapedini della mente, l'universo tuona e ammansisce. Una suite colorata, simultanea, vibrante, che fagocita il misticismo norreno nella spelonca dei riverberi tonali.
Nel marasma di accordi di "Troubled Air" il pezzo, pian piano, perisce per rivelare, ai discenti, i due pilastri che ne marcano la natura: il bello e il deliberatamente transitorio. Catturare le molteplici variazioni foniche rappresenta lo scopo fondamentale del processo di incisione dell'opera; in questo caso, però, l'obiettivo risulta posizionato sul declino e la perdita di accenti, segnali, tremolii unici nella loro forma e, probabilmente, mai più riproducibili. Nascita, decadimento, rigenerazione: si privilegia l'anima, con un tocco cosmico à la Ash Ra Tempel. E mentre "Aurora" respira, in penombra, gargantuesca e periferica, in "Novae" l'haldrophone della Guðnadóttir, simile al brusio combinato di un didgeridoo e di una campana tibetana, scuote la turba cherubina: le palpebre sbattono, i fuochi d'artificio esplodono, un terremotante violoncello conclude, rubizzo, l'onirico viaggio. Balugina una certezza: l'Apocalisse rende possibile l'emergere della luce.