Long Distance Calling
The Flood Inside

2013, Superball Music
Post Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 17/03/13

A proporre post-rock ‘puro’ si rischia parecchio. Questo perché sono altissime le probabilità di finire per seguire, senza alcuna deviazione, la strada scavata dalle ormai vecchie glorie del genere, relegando la personalità e l’originalità al ruolo di marginali ammennicoli. In tali casi, il risultato tipico è quello di dare alla luce l’ennesimo dischetto completamente inutile di una scena ormai pericolosamente vicina alla saturazione. Per i Long Distance Calling, band tedesca artefice già di tre album dal sound abbastanza standard, ma di fattura comunque superiore alla media, i primi campanelli d’allarme avevano già da qualche tempo cominciato a suonare. Nei cinque anni trascorsi dal primo lavoro, pubblicato nel 2006, in pieno periodo d’oro del genere, all’ultimo, le sonorità proposte dalla band sono sembrate un po’ stantie e scricchiolanti, cominciando a suscitare più sbadigli che lucciconi. Per dirla in tre parole: bene, bravi… Basta.
 
Musicisti navigati e dall’indubbio gusto, i tedeschi sembrano essersi resi conto che, giunti alla quarta prova in studio, era davvero arrivato il momento di cambiare approccio al genere, prendendo le distanze dal precedente omonimo doppio cd. La prima cosa a colpire l’attenzione in “The Flood Inside” è l’entrata in pianta stabile in line up del tastierista e singer Martin Fischer, vocalist dal timbro rock abbastanza classico, che non sbalordisce, ma che riesce a dare una certa dinamicità ai pezzi (tre su nove) in cui fa le sue apparizioni. Fischer è assecondato efficientemente dal resto della band, e si trova a suo agio su composizioni molto meno complesse che in passato, più orecchiabili. Purtroppo i risultati non sono sempre eccezionali: se il passo leggero di “Tell The End” dà vita a un pezzo immediato e gustoso, è molto meno convincente l’insignificante post-grunge proposto in “The Man Within”. 
 
Anche nelle tracce esclusivamente strumentali gli scossoni dati alla struttura canonica della canzone post (che si ripresenta, con il suo carico di noia, soltanto nell’incolore “Ductus”) sono massicci: sono una graditissima aggiunta i nostalgici preziosismi chitarristici che guarniscono molte delle tracce in scaletta. Già la seconda metà della traccia d’apertura “Nucleus” viene monopolizzata da quattro minuti di virtuosismi che ammiccano al blues rock di diversi decenni fa, spinti a forza in un modo insospettabilmente indolore in mezzo a chitarroni piombati degni dei Godspeed You! Black Emperor; allo stesso modo la seguente, energica “Inside The Flood” viene spezzata nettamente in due da un elegante, raffinato intermezzo solistico di stampo prog.
 
E’ però nella coppia costituita da “Welcome Change” e “Waves” che il disco raggiunge il suo picco qualitativo assoluto. Una splendida, malinconica ballata nello stile degli ultimi Anathema la prima, che vede al microfono gli ospiti d’onore Petter Carlssen e Vincent Cavanagh: piena di tocchi di classe strumentali, in particolare nell’intermezzo centrale, che da etereo, con chitarre distorte a rincorrersi sullo sfondo, si fa via via sempre più ritmato e ipnotico, per zittirsi infine subitaneamente e cedere il posto al reprise dei toccanti cori d’apertura. La seconda si apre come un microtrattato scientifico sulla formazione del suono e sul funzionamento dell’orecchio umano; il resto del pezzo è costruito su un’atmosfera sognante fatta d’arpeggi finissimi e da delay spinto, tocchi di violini appena accennati, sporadici colpi di tastiere. Sonorità calme, delicate, che saranno riproposte nel desolante finale di “Breaker”, prima che la palpitante elettronica della conclusiva “Black Hole” arrivi, con il suo vento campionato, a spazzar via tutto quanto, lasciando il posto per una epica, rumorosa conclusione.
 
C’è davvero tanta roba nell’ultima proposta dei Long Distance Calling. Forse anche un po’ troppa: “The Flood Inside” è un disco che pecca talvolta in compattezza e che sulla lunga distanza finisce per appesantirsi, anche a causa di alcuni evitabili scivoloni che quasi affogano l’enfasi costruita da altri momenti veramente emozionanti. Tuttavia, è ammirevole la scelta della band teutonica di mettersi di nuovo in gioco, con un disco che non è una semplice evoluzione ma un reboot completo, un vero nuovo punto di partenza. Il risultato non sarà una meraviglia, ma resta (e certamente non è poco) la migliore uscita del genere in questi primi mesi del 2013 e un album che lascia aperte tantissime porte, un deciso passo verso la consacrazione definitiva tra i ‘grandi’.




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