Loreena McKennitt
Lost Souls

2018, Quinlan Road
Folk

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 06/05/18

Mancare da uno studio di registrazione con inediti propriamente detti per oltre un decennio è sempre un’estrema criticità per un musicista, non importa quanto noto sia stato in passato: un’intera generazione di ascoltatori rischia di non entrare in contatto con la tua arte (specialmente quella attuale, iper-bombardata dallo streaming e scarsamente interessata alla ricerca storica); in linea generale, poi, difficilmente si può assistere ad una crescita, un’evoluzione del proprio talento, che troppo a lungo non è stato nutrito e stimolato.

E’ un discorso che vale almeno doppio per Loreena McKennitt, che con “Lost Souls” torna alla composizione personale dopo dodici anni (!) e, peraltro, solo parzialmente con brani nati in tempi recenti.
Il primo “problema” del disco, difatti è proprio questo: se già con “An Ancient Muse” non potevamo che constatare come quella Musa, che da sempre aveva sostenuto la McKennitt per almeno tre dischi che meritano di entrare nella storia del genere, era sì antica, ma anche piuttosto stanca e distratta, “Lost Souls” vive quasi per una buona metà di composizioni che derivano dai decenni scorsi, e questi recuperi sono chiaramente avvertibili nella scaletta. Parliamo della strumentale “Manx Ayre”, della ballad reiterata e circolare di rito “La Belle Sans Merci” e la nuovamente strumentale “Sun Moon And Stars” che, per quanto ben scritta, rimane comunque di una tremenda prevedibilità nell’arrangiamento, mettendosi in coda ad altri intermezzi mediorientali della McKennitt quali “Marco Polo” e “Santiago”.
Poi, possiamo reclamare anche di una struttura-disco che rimane oramai la stessa da “The Mask And Mirror” (anno 1994, che poi è anche vero che di altri dischi in studio propriamente detti da allora ne abbiamo avuti solamente altri due) ed esperimenti eccessivamente bizzarri che, in una scaletta non troppo nutrita, fanno sentire un po’ troppo il loro peso (l’inno militare “Breaking Of The Sword” che il colonnello McKennitt ha dedicato alla Royal Canadian Airforce presso cui ha prestato numerosi anni di onorato servizio).

Ovviamente, un grosso “ma” è in arrivo, ed è di quelli che riescono a salvare dal disastro un disco che avrebbe rischiato di finire dimenticato anche dai fan più accaniti della Musa canadese, e questo “ma” non sono altro che le composizioni più recenti di “Lost Souls”.
Le riconosci subito queste “anime bambine” per l’essere caratterizzate da un inedito tocco quasi country pop che si insinua, delizioso e lievemente destabilizzante, nelle classiche trame celtic wave della McKennitt, per cui ecco che l’iniziale “Spanish Guitars And Night Plazas” ha uno sviluppo quasi obliquo nella melodia che sorprende, la ballad per piano “A Hunder Wishes” una confortevole morbidezza e calore, il seguito spirituale di “Skellig” da “The Book Of Secrets” si dimostra più leggero del suo predecessore (“Ages Past, Ages Hence”, traccia n.3 anche in questo caso), e la title track in chiusura si pone come perfetto manifesto e sigillo di questa nuova suggestione.
Persino la malinconia del violoncello di Caroline Lavelle ed il violino di Hugh Marsh su “The Ballad Of The Fox Hunter” non richiamano più le vastità del deserto mediorientale o la solenne poesia di Keats e Yeats (onnipresenti anche in questo episodio discografico), quanto un’immagine più “familiare”, “casalinga” e morbida, da passeggiata nel bosco fuori casa, forse proprio quella fatta per quello scatto che ritroviamo, pesantemente rimaneggiato, in copertina dell’opera.

E’ paradossale fare questa chiusa viste le premesse poste in apertura, ma è chiaro come al termine dell’ascolto del decimo disco in studio della McKennitt si avverta lampante la consapevolezza che questa nuova dimensione intima della sua musica necessitasse di più tempo per essere sviluppata a dovere.
Invece, andando a ripescare dal passato, è come se con questo forzato trasporto si sia trascinato nel bagaglio anche tutti quegli elementi di stress e stanchezza che già si avvertivano dodici anni orsono.
E il risultato è che non possiamo trarre oggi un sospiro di sollievo sullo stato di salute dell’ispirazione di Loreena McKennitt, ed allo stesso modo non possiamo gioire di un disco che possa attrarre orde di curiosi avvicinandoli all’affascinante mondo della musica folk celtica veicolato attraverso una di quelle voci che si merita appieno gli aggettivi di “unica”, “vibrante” ed “(emotivamente) devastante”. Semmai, l’unica consolazione che rimane è quella di un buon disco transitorio, che piacerà ed intratterrà a dovere chi è già fan della McKennitt e, cosa non secondaria, offre un pretesto per la cantautrice canadese di tornare in tour in giro per il mondo con una formazione full-set strumentale di almeno 10 elementi sul palco.

Non è poco, ma è troppo poco dopo dodici anni di silenzio, e questa è una scomoda e bruciante verità.





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