Onestamente, non avevamo appreso con preoccupazione la notizia che i Chvrches, al terzo disco in carriera, sarebbero virati violentemente verso il pop.
Il pop non è una creatura mostruosa nella carriera di artisti che hanno sempre costeggiato quella scena senza mai cadervi sino in fondo, anzi: gli ultimi episodi discografici di Grimes a Janelle Monae sono lì a testimoniare come una maggiore digeribilità della proposta possa solo far bene nel veicolare un messaggio artistico che, sebbene vestito più leggero, viaggia comunque forte ed ispirato.
Semmai, per i Chvrches le preoccupazioni sono arrivate, in ordine cronologico: dall’aver appreso che dietro il disco ci sarebbe stato, tra gli altri, anche Greg Kurstin (produttore di Adele, Sia, e tutto ciò che genera autentico mainstream nell’ultimo lustro), dal sentire accompagnare i deboli singoli da dichiarazioni roboanti della Mayberry tutte uguali e tutte tipo: “Abbiamo usato la distorsione più dura di tutte su queste canzoni che sono luminose ma anche assai oscure” e, infine, dall’aver assistito al più grande spreco di un featuring di pregio assoluto dai tempi in cui i Placebo si sono limitati ad usare David Bowie come controvoce perenne di Molko su “Without You I’m Nothing” (nel caso specifico, Matt Berninger dei The National su “My Enemy”).
E sono tutte preoccupazioni che, alla prova dei fatti di “Love Is Dead”, si sono rivelate più che fondate. Non solo il disco è animato da una serie di brani deboli e ridondanti già prima che essi giungano a conclusione durante il primo ascolto (“Get Out”), ma anche da ingombranti e fastidiose influenze che nulla c’entrano nella musica del trio scozzese (“Miracle”, così debitrice degli ultimi Imagine Dragons che – oh- comunque in radio passano sempre) e, cosa più grave ed imperdonabile di tutte, da una sterilità emotiva che ha dello sconcertante.
Perché diciamocela tutta: anche lo scorso “Every Open Eye” aveva virato verso lidi più popolari rispetto all’esordio di “The Bones Of What You Believe”, ma ciononostante allora si poteva ancora avvertire quell’eco di malinconia ed emotività che animava la penna di Ian Cook (Ex Aereogramme, che puntavano ad essere i nuovi Anathema, per dire) nascosta sotto tonnellate di synth che, su quel disco, avevano la sfiziosa funzione di sviare l’attenzione dell’ascoltatore altrove, insinuando al contempo il piacere di un ascolto inevitabilmente affascinante e ripetuto nel tempo.
Popolare dunque sì, ma mai popolano.
Nel presente, invece, i synth vengono usati in sovrabbondanza solo per nascondere una debolezza generale di fondo (nessuna melodia davvero memorabile, forse giusto quella dell’incipit “Graffiti”), ma lo sviluppo a stampo (strofa-ritornello-strofa-ritornello-fine) della quasi totalità dei brani confinano i Chvrches in quel mare di mediocrità in cui nulla emerge, se non l’eco di un passato neanche troppo remoto posto in chiusura d’opera (“Wonderland”), e la struttura maggiormente articolata e perturbata di una “Never Say Die” che, comunque, all’opera dei fatti risulta meno disturbante di 30 secondi di “Bury It”, per dire.
Ecco dunque che se l’obiettivo era quello di usare il synth pop ottantiano e purissimo, ma riletto in chiave totalmente moderna, dei Chvrches per dare una lezione di come la classe possa essere profusa in un disco pop e basta come fece una certa Carly Rae Jepsen con “Emotion”: beh, il risultato è quello del clamoroso fallimento. Un tonfo attenuato unicamente da liriche come sempre rancorose e ficcanti, per quanto elementari (e la Mayberry si conferma maestra assoluta nello scrivere break-up records adolescenziali che risultano più interessanti alle orecchie degli adulti), e perché quel tocco sui computers “alla Chvrches” rimane comunque unico ed immediatamente riconoscibile nonostante tutto.
Ma nonostante “Never Say Die”, forse per i Chvrches è il caso di cominciare ad invocare un “Miracle” che possa donare loro nuovamente consistenza. Altrimenti, ad essere "dead" non sarà unicamente il loro "love", ma anche la loro musica.