Machine Head
The Blackening

2007, Roadrunner Records
Thrash

Un disco che è già un classico della storia del thrash metal
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 04/07/14

Mettersi a parlare di un disco come “The Blackening” nel 2014, a sette anni dalla pubblicazione, potrebbe risultare pleonastico. Un lavoro che ha avuto tutto il tempo e le opportunità per farsi conoscere, con continui e sfibranti tour in giro per il mondo (e diverse visite nel nostro Paese), venduto in migliaia e migliaia di copie (in due settimane superò i risultati ottenuti in tre anni col disco precedente), in grado di entrare in ottime posizioni nelle chart di molti paesi (in Italia raggiunse il n°55), osannato in ogni dove e votato come disco del decennio da un noto magazine del settore. Insomma un capolavoro.

Uno di quei lavori che definiscono una carriera. Benchè i Machine Head ci avevano regalato già un album diventato un classico del genere, il favoloso “Burn My Eyes” del 1994, è con “The Blackening” che la band californiana sembra aver raggiunto un livello e una consapevolezza nei propri mezzi mai espressi prima (e dopo, aggiungiamo). Una linea tracciata sulla sabbia, come cancellare in un sol colpo anni di uscite discutibili, riconfermando il trend in fortissima crescita già saggiato con “Through the Ashes of Empires” nel 2003. Se dovessimo riassumere “The Blackening” in una parola, potremmo sicuramente dire: completo. Un concetto che deve riportare ai dischi dei fasti dell’era heavy metal, in cui i protagonisti agivano gettando il cuore oltre l’ostacolo, ben lontani dal ragionare come “manager”, in cui la passione e la voglia di esprimersi al massimo delle potenzialità erano la norma.

Sostanzialmente quello che distingue “The Blackening” dai tanti ottimi dischi usciti in questi anni è proprio questo, la ricchezza di queste otto tracce ha fatto e fa gridare al “miracolo”. Completo perchè riesce a combinare lo stile groovy sempre caro alla band di Oakland, al thrash classico anni 80, racchiudendo simbolicamente gran parte della storia del genere. Completo perchè non vi sono solo violenza e tonnellate di riffoni granitici, ma anche molta attenzione alla melodia e allo sviluppo di momenti di grande raccoglimento. Completo perchè ogni minima parte sembra studiata, ristudiata e rifinita all’inverosimile (addirittura Flynn disse che per modificare certe parti e non perdere l’ispirazione, fu costretto talvolta a buttarsi giù dal letto e registrare di getto) senza perdere intensità e quella doverosa carica di immediatezza. Completo perchè la fusione di testi e suoni (eccezionali) è davvero degna di nota, raggiungendo in più punti vette altissime, potendo percepire la rabbia e la tristezza urlata da Flynn solo da poche note di chitarra.

"You tried to spit in the eye
Of a dead man's face
Attacked the ways of a man
Not yet in his grave"


Impossibile estrapolare da un lavoro del genere dei capitoli in particolare. Otto canzoni ognuna dotata di una particolare caratterizzazione da renderla “la propria preferita”. Passando da strutture lunghe e ricercate tanto care al thrash che ha fatto scuola, vedi la micidiale "Clenching the Fists of Dissent" o l’esaltante "Wolves" (rispettivamente dieci e nove minuti di lunghezza), rigurgiti di rabbia incontrollata e viscerale in ”Beautiful Mourning" e “Slanderous”, tra la ricerca melodica di "Now I Lay Thee Down" (quando un riff dissonante, una linea di basso e una voce che non sa solo urlare si fondono in qualcosa di tanto semplice ma altrettanto profondo), di “Halo”, un sali/scendi di emozioni eletta probabilmente “a furor di popolo” tra le più rappresentative del disco, e della conclusiva “A Farewell to Arms”, un degno commiato che potrebbe scalfire anche la corazza del metallaro più intransigente.

"For the love of brother
I will sing this fucking song
Aesthetics of hate,
I hope you burn in hell"


No, non ci siamo dimenticati di “Aesthetics of Hate”, da cui sono tratti i versi in alto, a nostro giudizio il brano più indicato da far ascoltare a un profano che si avvicina per la prima volta a “The Blackening” per riassumere le tante, troppe parole spese sin qui. Motivazione: reagire a un attacco senza senso del giornalista Wlliam Grim, che intitolò allo stesso modo un articolo scritto a seguito dell’usccisione di Dimebag Darrell, in cui veniva attaccato lo sfortunato chitarrista (“ignorante”, “barbaro”, “senza talento”, “più simile a una scimmia”) e di riflesso tutto il popolo metal. Emozioni: rabbia per la perdita, sgomento per parole senza senso, tristezza per un fratello che per colpa di uno squilibrato non è più tra noi. Risultato: una canzone che raccolga tutte queste sensazioni, in grado di reagire con sdegno, trasmettere collera, tristezza e la ferma volontà di tutta una comunità di rivendicare la propria natura e i propri valori senza farsi mettere i piedi in testa. Ecco, “Aesthetics of Hate” è tutto ciò, un brano così sentito da smuovere anche chi fosse allo oscuro di tutto quello che vi sta dietro, una fusione di testo e musica da antologia, raggiungendo l’apice negli assoli incrociati (uno dei tanti del disco) tra Flynn e Demmel, in cui ogni pennata vale più di mille parole. Semplicemente pelle d’oca.

È davvero tutto, il rischio di scrivere una serie di lodi sperticate c’era e siamo ben contenti di esserci cascati con tutte le scarpe, con la consapevolezza che queste parole non sono solo esagerazioni dettate dall’emozione, ma lo specchio fedele (almeno così crediamo) di un disco ormai passato alla storia. Un classico moderno, che riascolteremo ancora tra molti anni, come i classici di un tempo.



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