Michael Monroe
Blackout States

2015, Spinefarm
Hard Rock

Nights are now longer than ever.
Recensione di Giulio Beneventi - Pubblicata in data: 12/10/15

Tra le poche rockstar degli anni ‘80 ancora oggi sulle prime pagine dei giornali e l’abisso di vecchie glorie dimenticate o decadute, vi è oggi una oceanica zona grigia di personaggi oramai settoriali, sconosciuti a qualcuno, riveriti da altri. L’imperatore indiscusso in questo limbo di semi-notorietà è di sicuro Michael Monroe, ex-frontman dei leggendari Hanoi Rocks, il cui nome in Italia se chiamato in causa può benissimo collezionare un’apprezzabile serie di ignoranti “chi?” ma che tra gli appartenenti del genere glam è sussurrato con orgoglio e sentita devozione, quasi fosse da non pronunciare troppo invano. Un certo Axl Rose ebbe a dire che i Guns N’ Roses non sarebbero mai esistiti senza l’influenza del gruppo di Helsinki. E probabilmente è davvero così. In Finlandia poi è qualcosa di molto di più. Detto tra di noi, è praticamente l’Elvis Presley del Nord: la gente lo adora, il governo lo sponsorizza, i colleghi lo stimano.

Ma del resto, ascoltando i suoi dischi non è difficile capire velocemente il motivo di tale venerazione: Mike crede ancora profondamente in quello che fa… anzi, oggi più che mai. Ci mette tutto sé stesso, cercando onestamente di continuare a dare quello per cui è da sempre apprezzato. Cosicché anche il decimo album da solista, "Blackout States", risulta essere un lavoro sincero ed essenziale, un superlativo amalgama che rigurgita la vera essenza del punk-rock, quella che soltanto chi ha vissuto il periodo d’oro del genere può conoscere, la stessa che ti permette di confezionare con tranquillità un lotto di tredici inni estremamente duri ed energici e di rimanere allo stesso tempo sempre saldo al vecchio modello di Hanoi.

Considerabile potenzialmente come il terzo episodio di una trilogia iniziata con Sensory Overdrive e Horns And Halos (primi lavori con la nuova superband nata nel 2010), il disco in questione è la naturale prosecuzione del nuovo orientamento moderno: un ennesimo banchetto al sapore di tnt le cui portate questa volta vanno a comporre un concept retrospettivo dall’atmosfera a più riprese londinese, dal primo singolo “Old King’s Road" -tipico pezzo che potrebbe essere stato scritto dai The Wildhearts, con basso pulsante e su di giri- dritti filati sino ad alla celeberrima via della musica in Denmark Street mostrata in "Dead Hearts on D. St." che suona a tratti come una "Back To Mistery City" dalle venature moderne. Di vecchi amici in questo contesto metropolitano ne incontriamo diversi, dal caro vecchio Johnny Thunders (“Six Feet In The Ground”) a Dee Dee Ramone, originale autore dell’ottava traccia in scaletta, “Under The Northern Lights”, scritta proprio per il "finnish guy" nei primi Novanta ma mai prima d'ora pubblicata. Finalmente in veste ufficiale, oggi funge da vero Capolavoro del disco: essenza Ramones, arrangiamento Monroe... meglio di così davvero non si può chiedere. Niente ballate d'amore, nessuna perdita di tempo. Solo veloci composizioni che riaprono il discorso lasciato in sospeso due anni fa ("This Ain't No Love Song", "The Bastard's Bash"), fugaci attimi di respiro (“Keep Your Eye On You”, title-track), altre sfuriate rabbiose d'altri tempi (“R.L.F.”, gemella nel chorus della precedente "Soul Surrender") e autentici pezzi da greatest hits (“Goin’ Down With The Ship”, “Good Old Bad Days”, “Walk Away”). Nessun difetto? Quasi. Si può avvertire infatti un lieve calo di intensità in “Permanent Youth” che scalfisce la compattezza generale, punto forte del precedente "Horns And Halos", in parte qui ereditata. Sul piano soggettivo poi posso aggiungere l'inspiegabile utilizzo troppo centellinato del saxofono di Mike che nelle poche occasioni è capace di trasformare l’intera canzone come un redivivo Clarence Clemons e la scelta dell'immagine di copertina, sinceramente inguardabile. Trattasi comunque di superficialità che vanno relativamente ad intaccare la qualità eccellente del nuovo prodotto.

Insomma, “Blackout States” riesce ad essere esattamente senza troppi sforzi l’album che i più esigenti si aspettano e quello che sorprende in diverse occasioni anche gli scettici. Facile da assimilare, pienamente coerente con l'intera discografia, è l’ennesima prova che i good old bad days per Michael Monroe non sono mai terminati, né tra le lamiere insanguinate di quella maledetta Ford Pantera e neppure tra le macerie accumulate a tonnellate dal ciclone grunge, ma continuano a vivere una seconda giovinezza trapiantati nei giorni nostri, specialmente in questo nuovo disco che più volte lo ascolti e più ti diverti... nelle notti che inesorabilmente diventano sempre più lunghe.





01. This Ain‘t No Love Song
02. Old King‘s Road
03. Goin’ Down With The Ship
04. Keep Your Eye On You
05. The Bastard’s Bash
06. Good Old Bad Days
07. R.L.F.
08. Blackout States
09. Under The Northern Lights
10. Permanent Youth
11. Dead Hearts On Denmark Street
12. Six Feet In The Ground
13. Walk Away

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool