Molly Hatchet
Molly Hatchet

1978, Epic
Southern Rock

Recensione di Sergio Mancuso - Pubblicata in data: 16/07/18

"I can't remember how old I was
When Mama said to me
If it makes you happy, son
Then be what you want to be"
 


Così inizia "Trust Your Old Friend" classico dei Molly Hatchet ed è così che voglio iniziare questa recensione di una delle pietre miliari del southern rock. Gli Hatchet sono in giro dalla prima metà degli anni Settanta e hanno sempre fatto quello che volevano: sono i brutti, gli sporchi e i cattivi del southern e il moniker stesso contiene in sé le tracce seminali di quelle che saranno poi le origini sonore della band. Niente lirismo, nessun rimando a concetti astratti, ma il nome di una strega dedita al meretricio che si dicesse fosse nota per l'evirazione delle sue vittime. Loro non potrebbero essere diversamente ed è giusto così.



I nostri nacquero, almeno discograficamente, nella stessa città di origine dei loro fratelli maggiori Lynyrd Skynyrd, ovvero quella Jacksonville che diverrà un pò la mecca del southern: non è un mistero che proprio Ronnie Van Zandt, celebre cantante dello sfortunato gruppo, fosse pronto a produrli prima della sua tragica scomparsa. I Molly Hatchet sono dunque i capofila dell'ultima generazione delle band sudiste, quelle incentrate su sonorità più hard, e fin dal loro disco d'esordio si presentano come una particolarissima realtà a cavallo fra vecchio e nuovo. Di vecchio sopravvivono alcuni stilemi, il genere di fondo, le tre chitarre portentose, il piano honky tonk e la spiccata propensione al blues-country; di nuovo invece troviamo testi più sgangherati, scanzonati, una sezione ritmica grintosa e improntata verso sonorità hard e soprattutto le copertine di Frank Franzetta con il suo Death Dealer, il guerriero fantasy pesantemente armato e stoicamente mezzo nudo e minaccioso che diverrà il marchio di fabbrica del combo quasi come la Lingua Rossa identifica gli Stones.

 

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Per quanto concerne l'album, dobbiamo subito mettere in chiaro l'indubbia influenza che i padri del genere hanno avuto su di esso; basti pensare a "Gator Country", brano interessante con ampi fraseggi di chitarra e perfetti assoli ai quali s'intreccia la voce del cantante. Una canzone che ricorda da vicino una hit famosa in tutto il mondo che proclama quanto sia dolce vivere in Alabama, "Sweet Home Alabama" dei già citati Lynyrd, mentre "Dreams I'll Never See" non è una semplice cover, ma una versione riveduta e aggiornata in stile grintoso di un brano di Gregg Allman della Allman Brothers Band. E se mancano una slide come quella di Duane e le atmosfere psicotrope, i tre chitarristi dei Molly Hatchet non lesinano certo di solo infuocati, anzi battagliano tra di loro creando una sinergia piena di forza che lascia gli appassionati davvero soddisfatti.



In poco più di mezz'ora l'act del Sud degli Stati Uniti ci regala anche "Cheatin' Woman", un ruvido rock hard blues sporco al punto giusto, melmoso come le acque del Mississipi e altrettanto impetuoso; eppure la palma di miglior pezzo è pronta per essere donata a "The Price You Pay" che con il suo malinconico cipiglio riesce a trasportare chiunque l'ascolti in altre ere, quando i musicisti iniziavano la loro gavetta in squallide e fumose bettole prima di raggiungere la notorietà, salendo sui palchi della ribalta già rodati e smaliziati. Svezzati a suon di rock e torcibudella... proprio come i nostri che debuttano nel 1978 dopo essersi formati nel lontano 1971 e aver macinato chilometri e chilometri di strade.

 

"The time has come for me to say these words to all of you
Y'all always trusted me before, well I am doing what I got to do
You talk about me behind my back and play your foolish games
But when it comes to real trust, baby
It's worth much more than fame."
(Trust Your Old Friend)

 

La traccia non mente, fidarsi di questi vecchi amici che sono on the road da molto tempo è la scelta giusta da fare perché se non hanno la verve compositiva di altre formazioni southern come gli Allman Brothers, i Creedence Clearwater Revival o i celebri Lynyrd Skynyrd neppure la ricercano e non se ne può far loro una colpa dal momento che riescono a tirare su delle piste davvero buone. Perfette per essere ascoltate a tutto volume passando del tempo a divertisi, volando tra le note di una canzone o scivolando sulle corde tese delle chitarre in azione. Sono genuini, riescono a coinvolgere l'ascoltatore, ed è questo alla fine quello che conta, senza cercare le luci patinate del palcoscenico a tutti i costi. Non si può o deve chiedere di più ad un album rock di questo tipo.

 


 




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