My Sleeping Karma
Moksha

2015, Napalm Records
Psychedelic / Post-Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 30/05/15

Una volta si chiamava rock strumentale, poi cominciarono a metterci dentro le chitarre sovrapposte in feedback. I lamenti arpeggiati in feedback. I bassi densissimi. La produzione piena di echi. I power chord annacquati, trascinati sulle corde con l'agitazione e la sollecitudine che avrebbe un cadavere, e i giochetti lenti, leeenti, di note singole. In feedback. Lo cominciarono a chiamare post-rock, lo acclamarono, fu come la sconsiderata apertura di un vaso di Pandora: ne uscirono miliardi di band che facevano tutte la stessa cosa, con la Dea musica a spargere anime così, a campione, a un gruppo su dieci, forse a un gruppo su cento.
 
Tutto questo mitologico cappello introduttivo per dire che i My Sleeping Karma li possono definire "psychedelic rock" o "heavy instrumental groove" (lo fanno) ma in fondo si va a finire lì. Al post, a quelle informi masse afone che cercano di giustificare difficoltosamente la loro natura di full-length. Con tutti gli annessi e connessi del caso. I My Sleeping Karma fanno quello che in tanti hanno già fatto, a volte meglio, a volte peggio, a volte uguale. Fanno quello che loro stessi hanno già fatto, diluendo su una discografia di ben sei album concetti che si potrebbero sintetizzare in tre canzoni: l'India, le accelerazioni, a volte vere a volte finte, sottolineate da pestaggi alla batteria, una onnipresente tensione psicogena e rabbiosa che si stempera nelle sporadiche note di violini e piano, un po' di poetico romanticismo.
 
"Moksha" è fatto di sei tracce vere e di cinque intermezzi (tutti a dire il vero abbastanza interessanti, specialmente il triste n° 4), ha in scaletta pezzi decisamente validi (la title track crea dolcissime atmosfere per poi massacrarle, in una vera esplosione full band, la conclusiva "Agni" fa una gloriosa escursione nell'heavy prima di placarsi e riempire di nuovo l'aria di riusciti, suggestivi riverberi) e tantissimi momenti in cui regna sovrana la cara vecchia noia (la sommessa e prolissa opener "Prithvi" non è proprio il migliore attacco della storia del rock). Sarebbe forse una sentenza troppo malvagia il definirlo un disco del tutto trascurabile, perché in fondo ha qualche momento capace di risultare accattivante per chiunque. Sarebbe forse troppo una sentenza troppo magnanima definirlo diversamente, perché in realtà non ha nulla capace di far cambiare idea a chi del genere ne ha piene le tasche. Magari, come spesso capita, la verità sta in mezzo. Ai feedback.



01. Prithvi
02. Interlude 1
03. Vayu
04. Interlude 2
05. Akasha
06. Interlude 3
07. Moksha
08. Interlude 4
09. Jalam
10. Interlude 5
11. Agni

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