Ci sono titoli di album che sono semplicemente azzeccati, che vivono e respirano quelle melodie, quelle sensazioni, quelle realtà evanescenti quasi per osmosi, dalla copertina, al disco, al cuore caldo della musica. E "Fame" è uno di questi.
Fame è la necessità di assumere cibo.
E' la sensazione di vuoto, allo stomaco, in mezzo al petto, nella mente.
E' un desiderio intenso.
E' un bisogno.
E' tutto quello di cui i Nadàr Solo fanno poesia nel loro ultimo album, in modo così delicato e personale da essere commovente , dando voce a persone più che a personaggi, che gridano la loro fame di amare e la loro incapacità di essere amati ("Splendida Idea"), la loro malattia che consuma sé e gli altri ("Cara Madre", "Ricca Provincia") , il loro desiderio intenso di esistere e la paura di non esserne in grado ("Jack Lo Stupratore"). E lo fanno con estrema semplicità: con un disco che sembra quasi un live, senza fronzoli e senza costruzioni complicate in cui perdersi, ma arrivano dritti proprio lì, colpendo l'unico lembo di pelle scoperta e vulnerabile. Suoni essenziali, un po' dolci, un po' amari, un po' ipnotici che fanno da sfondo ad una voce indefinibile, cullata dalla forza delle chitarre e della potenza di testi che parlano di tutto quello di cui non si scrive mai abbastanza. O forse troppo.
E mi rendo conto che "Io non volevo dire tutte queste cose" : non volevo perché, in fondo, non serviva. "Fame" è un album semplicissimo, nella sua accezione più positiva. Si fa capire come gli istinti più profondi, come lo stomaco che brontola e sai di avere fame. E' la prova che il terzetto torinese è diventato "grande", con la consapevolezza matura che filtra in ogni arrangiamento e parola e che è pronto a costruire un sentiero che forse può sfociare in una strada di città e poi in un'autostrada che porta lontano.
Quindi : "Si fa in fretta ad etichettare molto prima che a capire".
Il vostro disco invece, cari Nadar Solo, viene compreso prima che giudicato, perché non serve, perché arriva subito. Come la fame di essere vivo.