Tori Amos
Native Invader

2017, Decca Music Group
Indie Pop

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 12/09/17

Partiamo dal presupposto che se vogliamo analizzare questo "Native Invader", quindicesimo disco in studio dell'infaticabile Tori Amos, allora dobbiamo scordarci di tutto quanto prodotto dalla cantautrice americana negli ultimi 17 anni, ovvero da quando la sua droga preferita ha smesso di alimentare la sua incredibile ispirazione, tanto da avere segnato un decennio musicale (i 90's) e - ad onor del vero - la storia della musica tutta in modo indelebile.
No, non si parla di chissà quale sostanza psicotropa: la droga di Tori erano gli uomini, le sue relazioni sentimentali più tossiche di un'eroina purissima che la condannavano ad una perenne infelicità e frustrazione, cristallizzando il tutto in canzoni che ancora oggi hanno ben pochi uguali in quanto ad ustionante verità ed emozione.
Da "To Venus And Back" in poi Tori le ha tentate un po' tutte pur di ritrovare quell'ispirazione andata persa con un matrimonio felice ed una bambina in famiglia: dai concept elaborati e concettuali ("Scarlet's Walk", "American Doll Posse"), ai dischi alla Marta Stewart ("The Beekeeper", "Abnormally Attracted To Sin"), passando alla colonna sonora di musical teatrali ("The Light Princess") financo alla musica classica con il perdurante deal con la prestigiosa Decca ("Night Of Hunters"): tutto inutile, e fa specie che, tra questi dilettantistici e quasi parodistici tentativi, l'unico episodio che è davvero riuscito a riaccendere una palpabile e tangibile emozione nell'ascoltatore fosse il disco ispirato al Natale ("Midwinter Graces").
Siamo arrivati ad un punto, con la Amos, che solo sapere che nelle tracklist di un suo disco c'è una traccia titolata "Chocolate Song" basta per conferire nell'attento ascoltatore tonnellate di fastidio e frustrazione.

 

Oh, non è un compito facile scacciare dalla testa tutto quanto scritto sopra, specialmente se la Amos, in apertura e chiusura d'opera, ci mette due brani che riportano direttamente nelle orecchie prima, e nel cuore poi, quelle atmosfere invernali e sanguinose del capolavoro (uno tra i tanti) "Under The Pink", ma è un atto necessario, altrimenti possiamo chiudere con un sonoro "3" in valutazione, dire che siamo di fronte ad un'ora abbondante di noia - per giunta prodotta in modo discutibile - e dichiarare la morte celebrale di un'artista che fu immensa. Così facendo, però, ciechi di frustrazione e sordi di delusione non renderemmo giustizia ad un disco che, seppur caratterizzato da pesanti difetti, segna comunque un timido miglioramento rispetto alle opere della "seconda era artistica" della cantautrice.

 

A questo giro, Tori scava nelle sue origini Cherokee per parlarci di natura, e di come gli uomini occidentali abbiano invaso quel paradiso terrestre che fu l'America per cambiarla per sempre. Non stupisce, dunque, che il disco sia una versione di "Scarlet's Walk" (disco ispirato al viaggio di redenzione emotiva di Scarlet attraverso gli USA) 2.0, con quelle soffuse atmosfere country blues qui però caratterizzate da una verve maggiormente rock. La noia è presente anche a questo giro come la fu sul disco del 2002? Sì. Ci sono brani in cui sembra che Tori stia suonando la Bontempi solo per lasciare spazio al maritino di giocare con la produzione e la sua chitarra elettrica? Bien sùr. E allora cosa salva il tutto dal disastro più completo? Domanda di non semplice risoluzione.

 

C'è una certa dinamica di suono maggiore rispetto agli ingiustificabili ultimi due parti discografici, c'è che il disco non dura 79:81 minuti ma "solo" 60, c'è che il duetto con la figlia Natashya su "Up The Creek", per quanto pasticciato e tratti dilettantistico, ha un certo fascino sghembo da "It's so wrong it's right".
C'è, soprattutto, la rassegnazione, per cui ci basta davvero una "Reindeer King" e una "Mary's Eyes" per farci concludere che "Native Invader" è un disco sì indigesto, che non segnerà affatto il presente musicale e che non porterà a Tori Amos nulla di più di quanto non abbia ottenuto, in termini di consenso di critica e pubblico, in quasi vent'anni.
Ma non ce la sentiamo ancora di poter scrivere che è l'opera che segnerà la morte artistica definitiva della sua autrice. Questo no.
Poi, per valutare l'entità del disastro, mai come ora conta il livello di sopportazione personale dell'ascoltatore, e il sottoscritto non si stupirebbe se, tra i molti che coraggiosamente decideranno di affrontare l'opera, non vi sia anche qualcuno che ritenga il disco sufficiente, forse financo discreto.
Paradossalmente, senza "Reindeer King" (terza volta che si nomina il brano in recensione) probabilmente il disco avrebbe forse raggiunto la sufficienza anche su questi lidi. Ma giocare con la memoria e con il cuore porta sempre a catastrofiche conseguenze, se poi alla provocazione non seguono prove concrete, in grado di convincere anche l'ascoltatore più annoiato.

 

A risentirci tra qualche anno, signora Amos. Magari con l'ultima opera prima dell'addio definitivo sulle scene che renda giustizia ad un passato che, oramai, non è davvero più in grado di sostenere. Noi ci vogliamo ancora credere.





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