Neil Young
Neil Young

1968, Reprise Records
Rock

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 16/01/14

“Know When You See Him
Nothing Can Free Him
Step Aside
Open Wide
He’s The Loner”
 
Di motivi per ricordare il 1968 ce ne sarebbero a bizzeffe e non staremo certo a citarli tutti, ma oltre al White Album e ai King Crimson, alle rivolte studentesche e “2001 Odissea Nello Spazio”, merita la menzione uno dei dischi d’esordio  forse più difficili da raccontare. Non è solo il debutto di un cantautore con la passione per il rock e neppure, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, il classico prodotto un po’ acerbo di un giovane talentuoso e di belle speranze. A liquidarlo poi come un lavoro di transizione fra i Buffalo Springfield e il resto della carriera, non gli si rende neppure giustizia. Quello di Neil Young solista è uno dei debutti meno convenzionali che si ricordino, come si conviene ad un artista imprevedibile e lunatico come lui. Il giovane Young capitalizza in maniera perfetta il giusto mezzo fra sperimentazione e sonorità tradizionali, secondo la lezione degli Springfield: la produzione cristallina, le sovraincisioni, gli arrangiamenti orchestrali sono i tratti salienti di un disco che ha molto poco dell’ ”opera prima”, e ne fanno il discendente diretto di quel 1968 che gli ha dato i natali.
 
Viene da chiedersi quanti cantautori, al giorno d’oggi, oserebbero aprire un disco con uno strumentale come “The Emperor Of Wyoming”, per raddoppiarlo sul lato B del disco (“String Quartet…”). “The Loner” contiene l’embrione di quel rock chitarristico che farà la fortuna di Young, ma il disco si ricorda più per le delicate ballate dal sapore vagamente psichedelico. “The Old Laughing Lady” e il suo vorticoso coro gospel, al pari di “Here We Are In The Years” e “What Did You Do To My Life?” disegnano paesaggi mistici e assolati, dominati da ipnotiche linee di basso e dalla malinconica sensibilità di Young. Impossibile scindere la sua mano da quella di Jack Nietzsche, arrangiatore e compositore fra i più famosi al mondo, che contribuirà in modo determinante ai suoi primi successi da solista. Ad anticipare i capolavori che seguiranno,  oltre alla già citata “The Loner”, spicca la splendida “I’ve Been Waiting For You”, breve ma intensa power ballad ripresa anche da David Bowie. Il resto sono brani onirici, che farebbero da colonna sonora ideale per un viaggio nel deserto fra sogno e realtà. C’è un elemento caratteristico che domina sullo sfondo, ed è il deserto. Quello arido della copertina, da cui spunta il faccione stilizzato di Young, che rivive nelle atmosfere dei pezzi appena citati, nelle linee di basso circolari di alcune tracce, nei paradisi psichedelici che il disco disegna. E a proposito di paradisi artificiali e mondi paralleli, Young ce li racconta in chiusura con un pezzo fra i più audaci della sua carriera. Nove minuti e tre accordi per sola voce e chitarra sono sufficienti a raccontare “Last Trip To Tulsa”. Sono nove minuti surreali, scanditi solo dalla voce tremula e dalle frustate sulla chitarra che variano continuamente di intensità.

Il debutto di Young resta un capitolo a parte della sua sconfinata discografia: la particolarità degli arrangiamenti, il momento storico e personale della vita del cantante in cui esso vede la luce ne fanno una piccola gemma cui Il rocker canadese non mancherà negli anni di rendere giustizia. Il minimo, per un disco che vede fra i guest nientemeno che Ry Cooder alla chitarra e Carol Kaye (Beach Boys, Frank Zappa) al basso, giusto per non farsi mancare niente. Un po’ rock, un po’ country, un po’ freak, nel 1968 Neil Young suonava esattamente così.




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