Nick Cave & The Bad Seeds
Ghosteen

2019, Ghosteen Ltd
Art Rock

L'album in studio numero 17 del poeta australiano arriva quasi non annunciato e ci conquista subito grazie alla sua sincera bellezza.
Recensione di Federico Barusolo - Pubblicata in data: 10/10/19

Quando nell'estate 2015 la caduta da una scogliera provocò la tragica morte di Arthur, figlio appena quindicenne di Nick Cave, "Skeleton Tree", sedicesimo disco in studio del musicista australiano con i The Bad Seeds, era in piena fase di registrazione. Lo stesso capolavoro, uscito poi oltre un anno più tardi, non poté che essere accolto dal pubblico come massima espressione e sfogo per la grave perdita subita e, in effetti, i toni cupi e malinconici, abbinati a un'interpretazione particolarmente cruda dei brani, non facevano che accrescere questa sensazione. La verità, però, è che al netto di qualche testo poi rimaneggiato, la quasi totalità dei pezzi era allora già stata elaborata e registrata.


A poco più di tre anni di distanza, quasi non annunciato, è arrivato il rilascio lampo del nuovo lavoro, intitolato "Ghosteen". Un annuncio frettoloso fatto la settimana prima della pubblicazione, poche semplici parole: "Le canzoni del primo album sono i bambini, quelle del secondo album i loro genitori". Un outing discreto volto a rivelarne il meno possibile e non disperdere l'attenzione dalla musica stessa, svelata in contemporanea mondiale in un video su YouTube lo scorso 3 ottobre.


Il tema di "Ghosteen" è chiaro da subito. La copertina del disco non passerà forse alla storia come un memorabile esempio di bellezza visiva, ma è abbastanza efficace nel trasportarci immediatamente nel mondo onirico e bambinesco dei brani che si susseguono nella prima sezione. Dopo la durezza e la cupezza dei due precedenti capitoli della band, sembra finalmente raggiunta una pace interiore, un luogo in cui il poeta può sfogare il dolore, ricostruendo le sue immagini più dolci e malinconiche.


Lo spazio è tutto per il cantato di Cave, sempre più maturo e per nulla accennante ad alcun segno apparente dell'età. I testi scorrono lenti e struggenti, pronunciati con un'attenzione ed un sentimento che ci fanno sentire toccati da ogni singola parola. La maestosa presenza poetica del cantautore è, se possibile, ancora più tangibile e coinvolgente, lentamente cullata dagli arrangiamenti lenti e ponderati del fidatissimo Warren Ellis. Il dominio assoluto dell'emozione dei brani è affidato al pianoforte e alle tastiere, mentre tacciono quasi completamente le chitarre e la batteria.


Le figure protagoniste delle storie narrate mostrano il loro lato più umanamente realistico. Si parte da un re, che al termine di una "Spinning Song" che concatena azioni e descrizioni in un continuo divenire, muore e lascia in eredità un cuore infranto alla sua regina e una promessa di pace. Chi conosce Cave capirà leggendone i testi che il re non è uno sconosciuto nell'universo del musicista, ma rappresenta uno dei suoi affetti musicali più cari, "with his black jelly hair he crashed onto a stage in Vegas"; il re è Elvis. Altrettanto noti sono i richiami biblici, che sta volta ci parlano di un Gesù sconfitto e sofferente, sempre più impotente rispetto al destino avverso dell'essere umano.


A salvarsi sono invece le figure più intime e pure. Gli onnipresenti cavalli bianchi, simbolo di etereo candore; il treno, come vettore tra il mondo di malinconica sofferenza dell'artista e quello di innocente sogno del proprio figlio; i bambini stessi, in trionfo totale nel ritornello della struggente "Sun Forest".


"Oh, the train is coming, and I'm standing here to see, and it's bringing my baby right back to me": uno dei versi più diretti e tormentosi di "White Horses" ci racconta di come, al di là delle figure retoriche, anche lo stesso autore dei brani sia messo a nudo in tutta la sua umana percezione del dolore. "Waiting For You" è sicuramente uno dei momenti più sinceramente belli di tutto il disco, in cui la voce di Cave si mostra in uno dei suoi momenti di maggiore versatilità e profondità, assieme alla dichiarazione d'amore di "Leviathan". La poetica interpretazione canora si alterna poi spesso a momenti di evocativa stasi delle strutture melodiche, che vengono talvolta stiracchiate nelle sfumature quasi post/drone presenti ad esempio in "Galleon Ship" e "Night Raid".


Nella seconda sezione i brani salgono ulteriormente di livello, mostrandosi più evoluti e variegati. Il cantato spazia qui dallo spoken-word di "Fireflies" al falsetto di "Hollywood", intervallato da lunghe sezioni strumentali che rivelano melodie più complesse e policrome. Un finale che incorona definitivamente un disco assolutamente sublime, accolto da una reazione di unanime approvazione e commozione. Non era certo scontato un prodotto di questo livello, assolutamente in linea con la produzione degli ultimi anni e, al contempo, così distinto e personale. Certo, non si tratta di un lavoro che possiamo interamente comprendere nel giro di pochi giorni dal suo rilascio, ma di sicuro Nick Cave e i suoi Bad Seeds ci hanno stupito ancora una volta e ancora in positivo, con del materiale che non può che lasciare il segno in un angolino del nostro cuore.

 

"The three bears watch the TV
They age a lifetime, O' Lord
Mama bear holds the remote
Papa bear, he just floats
And baby bear, he has gone





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