Al quattordicesimo album in carriera, i Crematory con "Oblivion" non si discostano molto dalla formula sperimentata in "Monumentum" (2016): gothic metal, industrial ed elettronica racchiusi in un lotto gravido di romanticismo teutonico e visioni di salvezza che nulla aggiungono alla proposta abbondantemente oliata del gruppo, ormai sulla breccia da più di venticinque anni, interruzioni comprese. Line-up, sala di incisione (Kohlekellerstudio) e produttore (Kristian Bonifer) restano i medesimi del lavoro di ventiquattro mesi fa; la vera novità risiede nell'assenza di brani in lingua madre, evento che non si verificava dal 2008, quando venne dato alle stampe l'incerto "Pray". Una scelta opinabile, dal momento che probabilmente l'ultima opera di un certo rilievo dei nostri, ovvero "Klagebilder" (2006), basava la propria efficacia sul cantato in tedesco, benché il sound complessivo, pur agile e meno bolso del solito, non presentasse grosse trasformazioni.
Nella nuova fatica del sestetto i chitarroni, i tappeti di tastiere e i synth vestono, as usual, il ruolo di protagonisti incontrastati nel creare un'atmosfera generale che brancola tra sostanziali aperture melodiche, arrangiamenti orchestrali e tiepide durezze: il growl rotondo di Felix, unico vestigio del passato death del combo, si adagia su armonie carezzevoli che sferzano unicamente in superficie, mentre le clean vocals del bassista Tosse Basler si occupano soprattutto di ritornelli scolastici, ma piuttosto calibrati ed evasioni timbriche medio-alte di piacevole limpidezza. Niente di particolarmente originale sotto il sole grigio di Mannheim, con Rammstein e Tribulation a far da conclave all'intera operazione targata SPV/Steamhammer, il cui patrocinio in ogni caso ha permesso all'act di risollevarsi dopo un lungo periodo incolore.
L'intro sinfonica e marziale in spoken word di "Expectation", rimembrante i cugini austriaci Silenius e Protector, funge da antipasto per "Salvation", pezzo nel quale lo spirito di Til Lindemann e soci e i cori ecclesiastici in sottofondo contribuiscono a candeggiare le tenebre evocate dal corpulento frontman alemanno. Se le fondamentali keys di Katrin Gorger svolgono una funzione egemone in "Ghost Of The Past" e "Until The Dawn" vede le sei corde realizzare un massiccio sostegno agli scambi vocali dei due singer, la ballad in climax ascendente di "Revenge Is Mine" e una rivisitazione accelerata dei Summoning nella plastica "Wrong Side" offrono interessanti spunti in termini di anthemica digestione easy listening. "Stay With Me" si sposta nei levigati territori della love song monodimensionale e priva di nerbo, mentre si torna a martellare con giudizio nell'abbrivio thrashy di "For All Of Us", che tuttavia nel refrain pulito si aggancia, senza troppa fantasia, al repertorio già scartabellato. "Immortal" intanto si proietta direttamente nei ritmi sintetici degli eighties, conglobando Visage e Duran Duran in una struttura generale pseudo-heavy; "Oblvion", invece, non disdegna cadenze EBM nell'abituale alternanza di blandizie e scudisciate. Nel finale la patina muscolare di "Cemetery Stillness" bilancia una "Blessed" che pesca nello stesso stagno eufonico delle tracce precedenti, a differenza di "Demon Inside", ove i pattern percussivi osano finalmente puntare i piedi, bilanciando le svisate al velluto grezzo tanto amate dalla band germanica.
Prevedibili e convenzionali, i nostri riescono comunque ad attirare una discreta dose di attenzione impacchettando un disco di media caratura, che non mostra particolari guizzi né tremendi rovesci: un manufatto in perfetto stile Crematory, con tutto ciò che ne consegue, nel bene come nel male, e destinato forse a un rapido oblivion.