Opeth
Sorceress

2016, Nuclear Blast
Prog Metal/Rock

Il dodicesimo album in studio degli Opeth è l’ennesima conferma che Akerfeldt e soci seguono un percorso di cui si conosce l’obiettivo, ma non il sentiero: l’innovazione. 
Recensione di Cristina Cannata - Pubblicata in data: 28/09/16

“Sorceress” rappresenta un’altra tappa di un percorso durato 25 anni in cui la parola d’ordine è stata evoluzione. Un’evoluzione sicuramente dibattuta, che ha portato alcuni a prendere le distanze dagli Opeth, rei di aver abbandonato il loro genere originario, e altri, invece, ad amarli, per via della loro deviazione verso l’universo del prog rock/metal. Prima di iniziare, diamo uno spoiler: non c'è  growl in quest’album. Vecchi fan, ci avevate sperato, eh? E invece i tempi in cui il giovanissimo 16enne Akerfeldt urlava a squarcia gola sembrano belli che andati. D’altronde la maturità musicale si misura anche in questo, nella capacità e nella volontà di indagare sempre strade nuove, rischiando-a volte- la non benevolenza dei seguaci. 
 
Dalla loro formazione e dalla loro ascesa nel panorama musicale che "conta”, diversi sono i termini usati e abusati per descrivere gli Opeth, semplicemente perché non è un gruppo semplice da collocare all’interno del panorama musicale attuale, ma quello più opportuno sembra essere “progressivi”. Una progressione però inversa, al contrario, che da un progressive death metal moderno vira verso un progressive anni 70, quasi classico. Eppure in questo modo Akerfeldt e compagni sembrano essere pervenuti ad uno stato di maturità soddisfacente. 
 
L’ultimo nato in casa Opeth sperimenta un sound assolutamente particolare (frase che a tratti può sembrare scontata, ma va presa alla lettera): ha la finezza e l’eleganza di “Ghost Reveries”, la potenza di “Watershed” e i ritmi incalzanti di “Blackwater Park”. Un album che si distingue nettamente da “Pale Communion” e da “Heritage”, superando le loro strutture più matematiche e il loro sound più impegnativo e composto. Un sound molto più heavy. Diciamolo pure: il primo album veramente heavy dopo “Watershed”. La particolarità del sound è data da suoni dolci, a tratti classic folk, morbidi che immediatamente vengono spezzati da bruschi irruzioni pesanti, graffianti, veloci. Un contrasto che pervade tutto il disco. D’altronde, con i contrasti, alla band è sempre piaciuto giocare e "Sorceress" lo mette immediatamente in chiaro già a partire dalla cover dell’album: un elegantissimo pavone si erge in tutta la sua meravigliosa e coloratissima bellezza sopra un cumulo di teschi, crani e carne umana. Abbastanza singolare. 
 
E così "Persephone" apre il disco con una melodia molto dolce e cullante che poi esplode nella titletrack, scelta come singolo anticipatore dell’intero lavoro, "Sorceress", che mette nelle orecchie dell’ascoltatore un sound molto più cupo e corposo, con dei riff molto graffianti stile hard rock di vecchio stampo (sì, c’è molto hard rock in questo album) che poi muta in strutture tipiche “opethiane post 2008”, amplificate nel finale dall’incalzante batteria. Si continua a giocare con i contrasti con “Will O Wisp”, una ballata folk messa lì di proposito come cuscinetto ad anticipare quello che è sicuramente il pezzo più corposo e affascinante del disco, “Chrysalis”: un brano complesso, dove il prog “vecchio” e il prog “nuovo” si schiantano l’uno contro l’altro esplodendo in ritmi molto sostenuti, molto più energici, grazie al contributo tanto delle chitarre quanto delle tastiere. Ebbene sì, un plauso a Joakim Svalberg le cui tastiere, e la loro vena occasionalmente jazzy, spiccano ergendosi a tratti ad elemento distintivo di molte e molte canzoni. Arriva ancora una volta a calmare le acque “Sorceress 2”, con una musicalità più folk, che richiama vagamente i Genesis dei tempi di Peter Gabriel. Sì perché le influenze in questo disco non si contano. Influenze che non sono semplici tributi o richiami, ma sono evidentemente degli insegnamenti, appresi tempo orsono, interiorizzati, personalizzati e riproposti: ELP, Gentle Giant, Camel. Ciò che stupisce è sentire tocchi di Deep Purple e Led Zeppelin, i cui ritmi di batteria di John Bonham, le sue strutture ampie, articolate e potenti si possono ritrovare in “The Seventh Sojourn”. O ancora i riff di chitarre e le linee vocali dei Pink Floyd si riconoscono nettamente in “A Fleeting Grace”, un pezzo che stupisce molto per la complicata struttura su cui si compone, così come “Strange Brew” che al suo interno concretizza la contrapposizione lento-veloce, dolce-pesante che irradia tutto il disco.  Non mancano, infine, dei brani un po’ più catchy (termine difficile da usare parlando di Opeth) come “Era”, dove le tastiere la fanno da padrone; accanto a dei brani con strutture che ci aspetteremo dagli Opeth post 2008, come “The Wild Flowers”. "Persephone", ancora, ha il compito di chiudere questo cerchio di contrapposizioni: il bianco e il nero, la staticità e la dinamicità, il leggero e il pesante, il debole e il potente, tradizione e innovazione.
 
Un album quindi tutto da scoprire, che merita un’adeguata attenzione all’ascolto e da giudicare con la consapevolezza che siamo davanti ad una band che continua, ancora, a rinnovarsi, riuscendo a stupire ancora e ancora i fan, che sia in positivo o che sia in negativo.  Un album “diverso”, come diceva Akerfeldt nella nostra intervista, un album che ha ben chiara la sua essenza, il suo ruolo all’interno di un percorso ancora imprevedibile.  





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