Un album, insomma, non introspettivo e ripiegato verso il dentro come a tratti i precedenti, ma ben estroflesso e aperto a nuovi stimoli: un biglietto da visita del nuovo corso intrapreso dalla band svedese. È misteriosamente sviante e bella la copertina, che ritrae uno street kid che si imbatte - così lo interpretiamo, e sembra suggerire la misteriosa traccia finale - in un portale spaziodimensionale che si avvia ad attraversare... bella, ma che c'entra con l'album? Certo incurisisce. Conosciamo il modus operandi: ironia postmoderna nel ribaltare i piani e mescolare le carte, confondendo sacro e profano, cultura alta e pop; il loro essere avantgarde li spinge ben al di là dell'originale matrice symphonic, genere di molte virtù che però non contemplano l'ironia o la parodia. I DSO invece ci sospendono proprio tra barocco, melodramma e musical metal.
In "Knucklehugs (Arm Yourself With Love)", un inizio hippie con sviluppo country e cori VS voce maschile pseudoelvisiana ci introduce al folle immaginario della band; nel seguente "The Age Of Vulture Culture" è un quartetto d'archi a dispiegare una rumba metal spinta dagli ottoni, a cui si aggiungono bei refrain di voci femminili, distorsioni e un ponte a cassa continua con voci sussurrate; ironico contrasto, insomma, tra i toni drammatici e i testi, che prendono di mira la cultura cannibale, tassidermica e verminosa dei nostri tempi. Al terzo brano il nostro biplano prende fuoco, precipita in pieno deserto del Sahara. Dune e dune all'orizzonte. Iniziamo a perlustrare ovunque in cerca di oasi; la troviamo in un delicato bolero stile Ravel, che però nasconde insidie di distorsioni e cavalcate forsennate di metallari berberi facendoci finire come per magia... alle Hawaii! Breve ritorno al bolero per poi precipitarsi a Broadway - passando (perchè no?) per la "Carmen" di Bizet - in una specie di omaggio mascherato a "Bohemian Rhapsody" dei Queen: fuori metafora, non sentivamo più nulla di simile dai tempi dei mister Bungle: una simile capacità di mixare stimoli e spunti i più diversi in un meccanismo che stia insieme, funzioni, e funzioni bene.
La brevissima quarta traccia è come attraversare per un momento il set di un film di fantascienza, girato però da Sergio Leone; "Lady Clandestine Chainbreaker" flirta disinvolta col jazz, il liscio e un certo pop d'autore ben valorizzato dalle voci femminili, ma nulla che non si stemperi nel musical e in vezzi di proscenio, come nel film "Moulin Rouge". Esplode un tango di violini ed elettriche. Lo azzarderemmo come pezzo da passaggio radiofonico, anche col suo bel ponte cattivo e lento di distorsione e la chiusura che ha la solennità di una marcia funebre. Dopo un'apertura romantica di archi, la sesta traccia ingaggia con noi un bel giro di disco music con aperture che non sfigurerebbero in un Bond theme; "Pulse Of The Incipient" è la cavalcata psichedelica nelle vene di un corpo gigantesco, ma subito dopo "Ode To The Innocent" ci avvolge come il momento più lirico e classico del disco, pur sempre con un filo di burlesque dietro l'angolo; "Interruption" è un'altalena sospesa tra l'aria d'operetta, il brano solo piano alla Tori Amos e una sorta di Metal tradizionale messicano, se mai fosse esistito; a un certo punto l'operetta e gli ottoni del Messico si fondono: sublime e distopico.
"Cul-De-Sac Semantics" è un breve duello tra walzer e mazurka, mentre "Karma Bonfire" ne è la danza satanica, in cui nientemeno che swing, blues e metal - con piccole fughe ragtime - si rincorrono in un brano forsennato che conquista la palma dei nostri cuori, nel rispondersi di cori maschili e femminili, come nelle antiche quadrilles francesi. A chiudere il lavoro, "Climbing The Eyeball", una delicata danza di seduzione e d'amore cullata dagli archi, in cui il contrabasso ci spinge a colpi d'archetto verso cori maestosi e quasi gospel, quando il basso distorce e la chitarra fondono in una marcia verticale alla vetta, che sigilla in sinistra cupezza un album dalle molte, moltissime sfaccettature che non abbandonerà tanto presto le nostre orecchie.