“I Papa Roach non entreranno mai nell’Olimpo degli indimenticabili della musica”: così sei mesi fa liquidavamo “The Connection”, ansiosi soltanto di seppellirlo – ancora praticamente vergine, graffiato appena da un paio di rotazioni sul piatto – nel monumentale catasto di scartoffie e dischi usa e getta che ingombra la soffitta di redazione. Voleva essere un addio definitivo, il nostro: e invece, lo scorso 7 maggio, ci siamo ritrovati di nuovo per le mani l’ultimo lavoro dei californiani, stavolta sotto le spoglie di “The Connection Tour Edition”. Tredici tracce già sentite, un live show bruciato dalla precedente messa in onda televisiva, un montaggio che taglia e cuce intere canzoni senza apparente motivo: non ci sono dubbi che non si tratti della release che laverà via tutti i peccati dei Papa Roach, spalancando loro i cancelli del paradiso. Se tre indizi fanno una prova, il dado potrebbe essere tratto, il caso risolto; ma la via più breve – rappresentata dalla laconica constatazione che il quartetto non ha speranze di conquistare il monte Parnaso, né ora né mai – si prospetta lastricata di pungenti interrogativi irrisolti. Il più intrigante: com’è possibile che, a vent’anni dalla loro formazione e dopo insuccessi di critica e pubblico non indifferenti, i Papa Roach possano ancora contare su un seguito a dir poco nutrito? La risposta, per chi avesse voglia di scoprirla, giace oltre le porte di un gremitissimo e bollente club losangelino: e, credeteci, ne vale la pena.
I Papa Roach non entreranno mai nell’Olimpo degli indimenticabili della musica. Ma sarà davvero tutto oro quel che luccica? L’Olimpo è sopravvalutato, se persino i Nirvana possono essere detronizzati da un qualunque sondaggio di Rolling Stone America indetto allo scopo di eleggere la peggior band degli anni ’90. C’è poco da fare: anche le dimore degli Dèi, ormai, non sono più le roccaforti sicure di una volta, ed è rimasto ben poco a cui aggrapparsi. Un riff vecchio dieci anni suonato con la stessa affannosa meraviglia della prima volta, ad esempio. E poi un concerto goduto come fosse l’ultimo. E ancora il brivido che spacca il corpo nella fremente oscurità che precede lo show, la spasmodica attesa che stritola le viscere, i rivoli di sudore che arroventano la pelle, la seduzione della melodia che si frantuma in mille schegge di rapping brutale, le cicatrici di una tragedia sfiorata, i ricordi d’inferno, la fame di pace, i palchi divorati sera dopo sera dopo sera. I Papa Roach non li conosci davvero finché non li ammiri dirigere la folla on stage, finché non senti la voce scheggiata di Jacoby Shaddix intonare le colossali confessioni di “Last Resort”, “Getting Away With Murder” e “Scars”, finché non guardi dritto negli occhi di un frontman che non ha paura di darsi in pasto al suo pubblico e ti specchi e ti riconosci nel loro abisso vorticante. E’ allora che senti, prepotente, la connessione che non avevi mai avvertito prima, la connessione che non eri riuscito ad ascoltare. Il che non significa necessariamente che “The Connection Tour Edition” valga i vostri soldi, nonostante rimanga un prodotto tutto sommato appetibile per chiunque si fosse perso la svolta melodica dei Papa Roach; significa, al contrario, che vi conviene risparmiare. Perché le tappe italiane del Connection Tour incombono.
I Papa Roach non entreranno mai nell’Olimpo degli indimenticabili della musica, già. E allora?