Paradise Lost
Host (Remastered)

2018, Nuclear Blast
Gothic

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 08/04/18

Avrei voluto recensire "Host" nella sezione oldies per una serie di motivi, in primis perché appartengo a quella ridotta fascia di pubblico che all'epoca apprezzò il tentativo di svolta attuato dai Paradise Lost, tentativo qui ancora più accentuato rispetto al precedente "One Second". Poi, particolare forse meno interessante, perché ho vissuto l'uscita del disco in tempo reale, con tutta la sua coda di reazioni per lo più contrastanti e i ricordi si sa, finiscono sempre per avere un posto speciale; inoltre possiedo ancora la copia originale del 1999 targata EMI, questo non fa di me un privilegiato, ma è giusto per dire. Mi sono avvicinato a questa ristampa della Nuclear Blast non per aprire un dibattito revisionista, visto che di tanto in tanto il disco mi capita di riascoltarlo con piacere, bensì per toccare con mano  eventuali benefici apportati da questa operazione di restyling.

"Host" è un disco che ha lasciato un segno flebile nella memoria dei fans, non tanto per le atmosfere crepuscolari sempre care al gruppo di Halifax e qui presenti, quanto per la manifesta volontà di agganciarsi in qualche modo al mainstream dell'epoca o comunque a sonorità più commerciali. Per chi se lo ricorda, alla fine degli anni'90 si stava assistendo a una sorta di 80's revival, forse il primo dei tanti che ciclicamente si sono succeduti negli anni. Trainato dal ritorno sulle scene di Depeche Mode e The Cure, nel nostro paese il fenomeno prese i nomi di Subsonica e Bluvertigo, mentre nel metal band come i Moonspell e appunto i Paradise Lost assieme a tante altre sperimentavano la commistione con la vecchia dark new wave del decennio precedente, allo scopo non dichiarato ma legittimo di allargare la fan base.

"Host" sta ai Paradise Lost dunque come "Sin - Pecado" ai lusitani, due dischi diversi con la stessa filosofia di fondo, opere destinate a dividere i fans in eterno a prescindere dal giudizio soggettivo di chi ascolta. La grande intuizione della compagine inglese resta quella di aver confezionato un abito che si cuciva alla perfezione sulle sue atmosfere decadenti gothic doom; da questo punto di vista "Host" è un autentico viaggio nell'oscurità, glaciale tanto con i suoi sintetizzatori quanto con le tinte blu della copertina. Il titolo è un riflesso della grande suggestione esercitata dalla tecnologia e dalla rete in quegli anni: era allora di moda, più o meno in tutti i generi musicali, inserire titoli o tematiche in qualche modo attinenti al tema del 2.0. Stessa cosa per l'imminente arrivo del nuovo millennio, con cui i Paradise Lost giocarono nel video di "Permanent Solution" citando l'eclisse di agosto '99. Ma queste sono note a margine: per molti "Host" è ancora il disco votato al synthpop d'acchiappo, ma ad un ascolto più attento il disco regala molto di più,nelle atmosfere darkwave di "Made The Same" e "Nothing Sacred" per esempio ci sono le tastiere più gelide che sia mai capitato di sentire; abbiamo due splendide ballad come "Harbour" e la title track, tristi e crepuscolari, in cui fanno capolino tutti assieme violini, violoncelli e voci femminili, tanto per dire. Non mancano hit di grande impatto come "So Much Is Lost" e "Permanent Solution" o la toccante "Year Of Summer", con un Nick Holmes mai così emozionante; nel caso di "Deep" poi, e soltanto qui, la sperimentazione prende il sopravvento e il risultato non è affatto male, chissà cosa avrebbero potuto partorire i Paradise Lost, su questi territori. Non sarà un capolavoro "Host", e i brani magari non sono tutti memorabili, i cinque britannici hanno avuto coraggio da vendere nel concepire un disco non propriamente convenzionale, per quanto suonasse elettronico e in linea con le mode del momento, non esattamente il disco che ti aspetti di sentire come sottofondo al supermercato. Le caratteristiche principali di chi aveva conosciuto la band sono ben presenti, le atmosfere gotiche, la semplicità nella struttura dei brani, una certa omogeneità del disco; in fase di songwriting poi, la band avrebbe passato momenti decisamente peggiori a partire dai due dischi successivi.
 
Insomma, se non si era capito al sottoscritto "Host" piace ancora parecchio, al punto da inserirlo nella categoria dei dischi da riascoltare con piacere di tanto in tanto. Per raccogliere un po' di consenso in più all'epoca sarebbe bastato davvero poco, magari una parola a loro favore spesa in qualche intervista da Martin Gore o Dave Gahan, e oggi forse racconteremmo un'altra storia. Priva di particolari contenuti aggiuntivi invece, la nuova reissue targata Nuclear Blast va vista invece come un tentativo di coprire quella fetta di mercato electrogothic verso cui il pubblico metal butta di tanto in tanto l'occhio. Operazione legittima, destinata a riuscire se fatta con un prodotto di qualità com'è, appunto, "Host".




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