L'album può essere dunque facilmente scindibile in due anime. Ed è nella prima che si assiste (si fa per dire) ad un sound più vicino all'heavy metal di fine degli anni '80, dalle tinte grandiose ed epiche, sin dalla traccia d'apertura "Destroyer", vero e proprio biglietto da visita di questa veste dei Parkway Drive, con l'incalzare dell'intrepido Riff e dei cori che le fanno da contorno. Giusto per non sorprendere esageratamente i fan, segue "Dying To Believe", decisamente più in linea con quanto prodotto negli anni passati (la seconda delle anime di cui parlavamo, giusto per intenderci n.d.r.), in un solidissimo incedere, in cui la componente heavy "lampeggiando" va solo a sfiorare la seconda parte del brano, che prepotentemente torna sui suoi passi, proprio a far capire che, tutto sommato, nessuno vuole stravolgere nulla. Con una aritmetica puntualità (che ben presto noterete diventare caratteristica dell'album intero), la seguente "Vice Grip" si riaffaccia proprio sui già citati scenari melodici, stavolta in maniera molto più spudorata, quasi da Van Halen. E sì, stavolta si è un po' spinto troppo l'acceleratore (o il freno, a rigor di brutalità). Ci pensa "Crushed" però a riportare stabilità nella bilancia, ed effettivamente di equilibrio possiamo parlare, visto che dopo "l'OHM" iniziale si apre la strada un qualcosa decisamente più nei canoni del semplice Metal.
Dopo "Fractures", sempre al limite tra Trash Metal e Heavy, l' ottimo incipit à la Bach degli archi di "Writing On The Wall" dona, oltre che una piacevole sorpresa, una certa drammaticità che permane per tutta la traccia, danzando sul ritmo della cassa, in una trascinante marcia che cresce finendo per sprigionare una rabbia repressa, riassopita solo con il pianoforte sul finale. Tale rabbia ha la possibilità di sprigionarsi con l'aggressività di "Bottom Feeder" e "The Sound Of Violence" grezze in puro stile "Atlas", e primo vero caso nell'album di totale assenza di contaminazione, se non nelle liriche tendenti al Rap della seconda, che strizzano l'occhio ad una non celata passione per il Rapcore (basti ascoltare le cover dei Rage Against The Machine suonate in Live recentemente). Dopo "Vicious", senza infamia nè lode, la festa continua con "Dedicated", che realizza l'ultima marcatura (utilizzando una metafora calcistica) per chi voleva comunque intatta l'anima MetalCore della band australiana, visto che con una perfetta "Ring-komposition", "A Deathless Song" chiude l'anello con un heavy-rock trionfale e megalomane.
"Ire" potrà non piacere ai puristi, ma è a nostro parere un esperimento riuscito, non eccellente, ma che non può comunque svilire gli sforzi dei Parkway Drive. Senza fermarsi esclusivamente ad un giudizio finale, che ovviamente dobbiamo dare, ma che non per questo deve essere preso come la "chiave" di questa recensione (cosa che invece il voto numerico spesso finisce per diventare), vorremmo sottolineare come la Band australiana si sia confrontata con qualcosa che, da un punto di vista strettamente tecnico, risulti per nulla semplice, riuscendone vincitrice. In tutto ciò il Metalcore non passa mai in secondo piano, il che è un altro aspetto da non sottovalutare, così come non si può non notare, e lodare, come le due metà stilistiche dell'album si sfiorino soltanto come lo Ying e lo Yang, ma senza creare "mostri a due teste", se non in un paio di casi, giusto per scongiurare l'orrido rischio del fantasma "Era meglio prima", che purtroppo spesso nella musica viene additato al primo cambio di passo di una band, anche se temporaneo, come per altro immaginiamo sia questo.