Diceva Michael Jordan che i limiti, come le paure, sono spesso soltanto un’illusione. Più o meno negli stessi anni in cui “Air” dettava legge, c’era un gruppo musicale che proveniva da Seattle, che non suonava grunge ma che era capace di applicare a un ambito diverso lo stesso credo. I Queensryche di metà anni novanta avevano mostrato a un pubblico poco incline ai cambiamenti come quello metal che certi limiti potevano essere superati spogliando uno stile e le sue caratteristiche principali di tutti i cliché inutili. Negli anni in cui l’heavy metal era in trasformazione e proprio come il resto del mondo vagava alla ricerca di un nuovo ordine, la band di Seattle rappresentava per molti la deriva avanguardistica, colta e accattivante del metal classico. I cinque di Seattle si lasciano così alle spalle i 5 milioni di copie vendute con “Empire” con un’opera introspettiva e inclassificabile, di cui ancora oggi risulta difficile trovare la chiave di lettura.
“Promised Land” è uno di quei pochi casi di evoluzione non osteggiata a priori da un pubblico cui piace da sempre sentirsi rassicurato, è il disco della decantazione dopo la grande abbuffata e che nasce da una gestazione lunga quasi due anni, un arco di tempo lunghissimo in cui i Queensryche hanno fatto i conti con i loro dubbi artistici e esistenziali. Le atmosfere gelide e i suoni taglienti sono sempre quelli della collaborazione con James “Jimbo” Barton, che esaltano il valore di ballate orchestrali come “Lady Jane”, “Out Of Mind” e “Bridge”, che transitano da insoliti sperimentalismi (“Disconnected”) e dal gusto inedito di alcuni interessanti brani rock. L’influenza dei Pink Floyd, velatamente presente in tutte le opere precedenti, è fortissima nelle ballate, nelle atmosfere maestose della title track e nella malinconia onirica che pervade tutta l’opera. Ancora oggi una chiave di lettura univoca dell’opera forse non c’è: “Promised Land” è un consapevole excursus sul significato della vita da parte di chi ha raggiunto, forse, il suo zenith creativo. A oltre vent’anni dalla sua uscita si presta ancora a numerose interpretazioni, pone i primi interrogativi sul mondo globale (“There’s hunger in Africa/ and anger on assemply lines/ at the touch of a button/ I’m miles away/ I want no connection, just information/ And I’m gone” canteranno profeticamente su “My Global Mind”), affronta temi come il rapporto con le proprie origini, le droghe (che a detta di Tate, influirono non poco sulla genesi del disco) e più in generale il senso dell’esistenza. L’Oriente come simbolo di inizio, del sorgere del sole come della vita (“9:28 AM”) richiamato dalle melodie di “I Am I”, è soltanto una delle molteplici sfaccettature di un’opera che a dispetto della sua complessità scorre piacevole e fluida all’ascolto.
Come ai tempi di “Rage For Order” ancora una volta i Queensryche indicano una via nuova che, stavolta, diventerà un vero e proprio vicolo cieco. “Promised Land” è il punto di non ritorno per una band forse non all’altezza delle proprie ambizioni, come dimostreranno da lì a breve i fatti. Il tour seguente sarà fra i più seguiti negli States quell’anno (sì, avete letto bene) ma da lì in poi, i Queensryche rimarranno la pallida ombra di se stessi.
“Promised Land” è uno di quei pochi casi di evoluzione non osteggiata a priori da un pubblico cui piace da sempre sentirsi rassicurato, è il disco della decantazione dopo la grande abbuffata e che nasce da una gestazione lunga quasi due anni, un arco di tempo lunghissimo in cui i Queensryche hanno fatto i conti con i loro dubbi artistici e esistenziali. Le atmosfere gelide e i suoni taglienti sono sempre quelli della collaborazione con James “Jimbo” Barton, che esaltano il valore di ballate orchestrali come “Lady Jane”, “Out Of Mind” e “Bridge”, che transitano da insoliti sperimentalismi (“Disconnected”) e dal gusto inedito di alcuni interessanti brani rock. L’influenza dei Pink Floyd, velatamente presente in tutte le opere precedenti, è fortissima nelle ballate, nelle atmosfere maestose della title track e nella malinconia onirica che pervade tutta l’opera. Ancora oggi una chiave di lettura univoca dell’opera forse non c’è: “Promised Land” è un consapevole excursus sul significato della vita da parte di chi ha raggiunto, forse, il suo zenith creativo. A oltre vent’anni dalla sua uscita si presta ancora a numerose interpretazioni, pone i primi interrogativi sul mondo globale (“There’s hunger in Africa/ and anger on assemply lines/ at the touch of a button/ I’m miles away/ I want no connection, just information/ And I’m gone” canteranno profeticamente su “My Global Mind”), affronta temi come il rapporto con le proprie origini, le droghe (che a detta di Tate, influirono non poco sulla genesi del disco) e più in generale il senso dell’esistenza. L’Oriente come simbolo di inizio, del sorgere del sole come della vita (“9:28 AM”) richiamato dalle melodie di “I Am I”, è soltanto una delle molteplici sfaccettature di un’opera che a dispetto della sua complessità scorre piacevole e fluida all’ascolto.
Come ai tempi di “Rage For Order” ancora una volta i Queensryche indicano una via nuova che, stavolta, diventerà un vero e proprio vicolo cieco. “Promised Land” è il punto di non ritorno per una band forse non all’altezza delle proprie ambizioni, come dimostreranno da lì a breve i fatti. Il tour seguente sarà fra i più seguiti negli States quell’anno (sì, avete letto bene) ma da lì in poi, i Queensryche rimarranno la pallida ombra di se stessi.