Queen
A Kind Of Magic

1986, EMI
Hard Rock, Art Rock

Uno degli ultimi dischi di uno dei gruppi più memorabili della storia della musica; l'ennesima consacrazione dopo la magia di  Wembley 1985, la voglia di urlare mai sopita di Freddie Mercury e i Queen. Qualcosa di magico!
Recensione di Valerio Cesarini - Pubblicata in data: 05/09/17

La Musica. Prodotto degli uomini per gli uomini, dagli uomini negletto perchè talmente radicato nell'animo umano da risultare quasi spontaneo, vissuto ma non cercato. E magari, in un certo senso è anche così: sebbene sia l'Uomo a creare la Musica, non necessariamente quest'ultima da esso dipende in tutto e per tutto. Un fenomeno individuale trascende, un'entità collettiva travolge ed evolve: uomini d'Inghilterra sulla cui natura umana qualcuno invero discuterebbe, di tale Musica artigiani altissimi, non possono evitare - neanche loro - di rischiare di affogare nonostante il loro potere di autori.


Scritto più in breve? Gli anni '80 non risparmiano nemmeno i Queen. Una delle poche band veramente al di sopra delle etichette, della storia della musica moderna così come la si legge sulle riviste, dall'aurea talmente eterea da essere meritatamente schermati da critiche e crepe del tempo.  Dall'altra parte, però, quattro uomini. Straordinari di certo, ma in quanto umani, inevitabilmente trascinati da qualsiasi corrente che l'Uomo non possa fermare. E poco importa se si tratta di onde salate o pad e chitarre giganti.


"A Kind Of Magic" è forse il lavoro della band di Londra più affogato nei mitici anni del synthpop, del rosa neon e degli scaldamuscoli; freschi di una delle esibizioni live più memorabili della storia (Wembley 1985), i rinati Queen dichiarano le loro intenzioni già dalla traccia d'apertura: osare, ma non perchè siamo negli anni '80, ma perchè Freddie e le Regine non sanno esimersi dal farlo.


"One Vision" apre il disco, e in quattro minuti introduce più tematiche e caratteristiche ottantiane di quante se ne possano contare; dalla produzione impastata alle chitarre larghissime condite da chorus e riverberi, i bassi sintetici e i pad sintetici. Costante di quasi tutto il disco è allora quest'altalena fra l'inevitabile contaminazione della band dovuta al periodo e la mai sopita, fragorosa identità dei Queen che lascia il pensiero che, comunque, quei brani li avrebbero potuti scrivere in qualsiasi momento, perchè, diamine, sono i Queen. Un Freddie invero già alla piena maturità vocale, col timbro arrotondato dagli eccessi dei palchi e del fumo, pericolosamente vicino alle parole che segneranno per sempre la sua vita e il decorso della band. La titletrack continua la falsariga quasi AOR ottantiana, stavolta con qualche chitarra in meno e qualche synth in più, e ancora più enfasi sugli immancabili - quelli sì eterni - cori alla Queen. Si ricordi comunque che il periodo del sintetizzatore è già passato, con "The Game" a inizio decennio e che A Kind Of Magic vorrebbe avvicinarsi all'hard-rock di cui la band è già maestra.

 

Ma nei tempi dell'AOR, dei groove saturi e delle ballate strappalacrime, dei Foreigner e dei Journey, ancora dondola l'altalena di cui sopra. Per cui non può mancare la ballad organo-e-sax, emotiva ma semplice... e dannatamente Queen. Niente voci carezzevoli, niente linee perfette: "One Year Of Love" ribolle della frizzantezza del cantato di un Freddie già consapevole della propria immagine, cantastorie folle d'amore e senza il minimo accenno di rimostranza nell'urlarlo sulle dolci colline di un Hammond. Probabilmente di voglia di urlare ne aveva tanta, Mercury, urlare di gioia, di adrenalina; urlare soprattutto mai da solo. I cori, fra overdub, Taylor, May e perfino vocoder rimangono lo strumento che riempie e riordina esperienze musicali stentoree ma frenetiche, rock di nome e di fatto; perchè Freddie e un po' tutti meritiamo di essere "Princes Of The Universe".


Principi o Regine: il tocco della regnante rimane inconfondibile nelle immancabili perle d'allegria tipiche dei Queen senza tempo; brani di voci più pulite, fra la canzonetta e l'inno (si può fare? Chiedetelo a loro...), colorati emblemi della cifra artistica di Mercury e gruppo. I falsetti e il pop sfacciato di "Pain Is So Close To Pleasure", l'andamento da inno rock di "Friends Will Be Friends", la firma tipica di Brian May in "Gimme The Prize": se proprio dobbiamo oscillare fra i venti dei tempi e le solide fondamenta dei Queen, stare un po' sulla terra non ci dispiace per niente. Ed è proprio da questa terra, per decenni fertile e gravida di vita, che nasce uno dei germogli più verdi del campo, del più grande campo di tutta la Musica.


C'è chi, ascoltando "Bohemian Rhapsody" non saprebbe trovare una collocazione temporale o logica; è una costante onnipresente nei brani frutto di un'ispirazione al di fuori del mondo che circonda l'artista, forse superiore, forse talmente insita nella mente dall'essere imperscrutabile. La bellezza si trova nel guardare l'emozione, nel fermarvisi davanti; e l'emozione è il fragore di una voce Divina o l'umanità di fronte a noi, è ogni singola vibrazione del tremolio della malinconia cantata da Brian May: non c'è tempo nè posto per noi.
È la risposta, di una sicurezza addolorata e forse quasi apparente, è tutto deciso per noi. Ma tu tocca solo le mie lacrime con le tue labbra, tocca il mio mondo, tutto il mio mondo, con la punta delle tue dita. E, forse, potremo amare per sempre.


Ma, poi, chi vuol vivere per sempre?





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