Red Hot Chili Peppers
Californication

1999, Atlantic Records
Rock

John Frusciante è uscito dal gruppo. John Frusciante è tornato nel gruppo. Evviva John Frusciante.

Recensione di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 12/01/15

Il solo modo in cui potrei immaginare di andare avanti sarebbe se John tornasse nel gruppo.

Queste furono le parole che Flea pronunciò ad Anthony Kiedis pochi giorni dopo aver cacciato via un Dave Navarro interessato sempre più a farsi piuttosto che a suonare e comporre. E mai altre parole furono tanto profetiche: dopo un’iniziale riluttanza da parte del cantante, entrambi si accorsero che John Frusciante, dopo anni di eccessi (ed usare questo termine in tal caso è un vero e proprio eufemismo) passati tra cocaina, buchi alle braccia che solo per pura fortuna non gli son costati gli arti superiori (ed anche qui, non stiamo esagerando), alcool e crack, si era stufato e voleva lui stesso tornare pulito, tornare nel mondo dei vivi, a tutti i costi.

Febbraio 1998. Frusciante esce dalla clinica. Kiedis e Flea sono felici, tutti sono felici.

Estate 1998: Frusciante torna nella band. Kiedis e Flea sono felici, tutti sono felici. Unico problema: John non ha una chitarra – tutte vendute per procurarsi droga negli anni – e non suona da parecchio tempo. Anthony lo porta al Guitar Center di Los Angeles e gli regala una Fender Stratocaster del 1962 da cui non si separerà più, neppure quando, successivamente, il suo roster chitarristico si rimpinguerà nuovamente di tantissimi altri modelli.

Come poter tornare ad assaporare musicalmente quel feeling umanamente ritrovato? Come poter dare una mano all’amico ritrovato nel recuperare manualità con le sei corde? Semplice: garage, impianto improvvisato e suonare, suonare, suonare.

Così è nato “Californication”, il colpo di coda inaspettato che i Red Hot Chili Peppers hanno stoccato dopo anni piuttosto turbolenti. Nessuna pressione, solo mettersi lì, suonare, prendersi un tè, tornare a suonare, ridere e scherzare. E suonare. Stop. Nulla di più. Contratti, etichette, produttori e quant’altro son problemi da valutare solo in seguito.

“Scar Tissue”, primo singolo estratto, è stata anche tra le prime canzoni composte per l’album, ed è anche quella che più rispecchia quei giorni: voltarsi solo per accertarsi che il passato sia davvero superato, accorgersi che quelle scarne linee di chitarra, essenziali ed esili come colui che le tesse, sono in realtà di una solidità e di un’ispirazione immensa, esattamente come colui che riesce a sprigionarle. “Around The Wolrd”, brano che dà il benvenuto all’ascoltatore, è un altro perfetto quadro dei Red Hot Chili Peppers di quel momento: tanta energia, tantissima voglia di riscattarsi, tonnellate di decibel sorrette dal basso di Flea e da un Anthony carico come “ai vecchi tempi”; in tutto ciò Chad Smith e Flea hanno carta bianca su cosa fare e come farlo, ed il buon Frusciante si lascia trasportare dalla baraonda con scelte semplici eppure azzeccatissime. Paradossalmente è stata proprio “Californication”, la canzone fortemente voluta da Kiedis e che dà il titolo all’album, a generare più grattacapi. Un testo pronto da tempo, dieci arrangiamenti provati, dieci arrangiamenti scartati. Fino a quando un giorno il redivivo chitarrista non arriva eccitato e felice in studio con un’idea ed un ritmo in testa (ed una chitarra, una White Falcon da 30.000 dollari) perfetti per quelle parole: due accordi, una variazione, una linea vocale un po’ più alta del solito e basta. Il tutto negli ultimissimi giorni delle sessioni di registrazione.

Potremmo continuare sciorinando elogi su “Otherside”, “Parallel Universe” e persino su quella “Porcellain” solo apparentemente fuori luogo. Potremmo continuare a dirvi che “Emit Remmus” è dedicata alla breve relazione tra Anthony Kiedis e Mel C delle Spice Girls, che solo per un soffio il disco non venne prodotto da David Bowie, che Rick Rubin ha lasciato che la band si esprimesse liberamente, salvo combinare qualche guaio in fase di editing (eccessiva compressione e poca dinamica, figlie della cosiddetta “Loudness War”). Nel giro di un anno e mezzo, da quel febbraio del 1998 alla calda estate del 1999, i Red Hot Chili Peppers hanno vissuto più cambiamenti di quanti ne abbiano mai affrontati prima. Soprattutto, cambiamenti positivi e propositivi, che hanno portato alla realizzazione di uno dei loro album più conosciuti, meno funk dei predecessori ma dannatamente, ops, beatamente ispirato da quelle che il visionario cantante definirebbe “belle vibrazioni”.

Il capolavoro che, in quei giorni, nessuno si aspettava dai Red Hot Chili Peppers, e che nemmeno si pretendeva oramai da loro. Questione di alchimie, d’energie positive ed una sola cosa in mente: suonare, suonare e ancora suonare, senza pensare ad altro.

L’unica cosa importante era suonare e fare musica. Non ce ne fregava un cazzo di contratti discografici, che il nostro manager ci avesse lasciati, o che la compagnia discografica avesse perso interesse per noi. Non importava niente. Volevamo solo andare in un garage e fare casino insieme.” (Anthony Kiedis)



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