Muscolare, possente, ossessivo: dopo parecchio tam-tam underground (già un annetto fa il batterista degli Arctic Monkeys cominciava a sponsorizzarli) e interessanti apparizioni live, irrompe finalmente nei negozi di dischi il tonante sound dei Royal Blood, come a volerci accogliere al termine delle vacanze per ricordarci che è finito il tempo di mollezze esotiche e smancerie da tramonto estivo.
Strizzando l'occhio anche a leggerezze radiofoniche e assolini grunge (la veloce "Figure It Out", forse anche il brano più debole del mazzo), il duo di casa a Brighton apre un impatto sonoro stoner di Kyussiana ignoranza a succose coloriture (si ascolti il magistrale riff in conclusione a "Blood Hands"), regalando genuini shock nel momento in cui ci si accorge che quelle che sembrano ruvidissime chitarrone altro non sono che rialzatissime linee in uscita dal basso del frontman Mike Kerr, che grazie a svariati giochi di prestigio riesce a suonare da solo (col solo aiuto delle decise rullate di Ben Thatcher) come un'armata di axemen. Un'ugola raschiata, attenta a mantenersi ligia agli stilemi del garage rock ma ammorbidita da aumenti di tono alla Jack White, completa un'offerta musicale che diverte e colpisce sul breve termine, ma che pecca innegabilmente di varietà e che non offre al mondo rock innovazioni stilistiche di qualsiasi sorta.
E in fondo la band finisce anche per essere vittima dell'hype enorme causato dalle svariate anticipazioni già diffuse negli ultimi mesi: già masticati abbondantemente prelibati bocconi come la dirompente "Little Monster" (magari fingendo anche di non notare come metta in scena uno spudorato plagio di "Voodoo Child") o la marziale "Out Of The Black", tutto ciò che resta in "Royal Blood" sembra non avere le carte in regola per poter stupire ulteriormente.