Scott Weiland And The Wildabouts
Blaster

2015, Softdrive Records
Rock

Band che lasci, Weiland che trovi...
Recensione di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 01/04/15

Voleva tornare nei Velvet Revolver, ma Slash non vuole vederlo nemmeno da lontano; voleva rimanere nei suoi Stone Temple Pilots, ma i suoi ex compagni si sono semplicemente stancati dei suoi atteggiamenti e non hanno fatto fatica a trovare un sostituto. Scott Weiland è certamente una delle personalità più difficili da gestire nel panorama rock, un adepto di sir Axl Rose potremmo dire, ma con una differenza sostanziale: per ascoltare nuovo materiale non dobbiamo aspettare 15 anni.

Ecco dunque che il cantante americano torna sulle scene con un lavoro solista accompagnato da una band creata ad hoc (i Wildabouts, un po’ come gli High Flying Birds per Noel Gallagher) atto a ribadire una creatività artistica tutt’altro che sopita. Da questo punto di vista, “Blaster” ha un’anima eterogenea, il più delle volte spiazzante, il più delle volte schizofrenica: l’opener “Modzilla” è ridondante ed ipnotizzante allo stesso tempo, ha un appeal che coniuga ottimamente un lato radio-friendlly ad uno più ruvido e d’impatto, ma, mentre agitiamo ancora la testa dopo la ripetizione dell’ultimo ritornello, assumiamo una espressione “What the fuck” quando parte “Way She Moves”, un po’ settantiana, un po’ british, con un assolo il cui incipit è a dir poco abominevole, completamente diversa dal feeling della precedente. Dopo vari ascolti, e soprassedendo (digrignando però i denti) su quell’assolo, non è neppure malvagia, ma è assolutamente trascurabile. Discorso diverso per “Hotel Rio”, ruffiana quanto basta per lasciarsi ascoltare ed insediarsi nella mente dell’ascoltatore. Non sarebbe una sorpresa se venisse scelta come futuro singolo.

Già questa prima terzina iniziale inquadra piuttosto bene l’andamento dell’album: brani che bilanciano melodia e buona resa sonora (“Amethyst”), echi delle decadi passate (“White Lightning” e “Youth Quake”, la migliore dell’album) si mescolano con brani la cui presenza è impalpabile come “Beach Pop”, o da idee interessanti sulla carta, ma non altrettanto nella pratica (la già citata “Way She Moves”). È azzeccata invece la scelta di chiudere il cerchio con “Circles”, ballad delicata in cui arpeggi acustici, banjo e venature di chitarra distorta riescono a tessere un’atmosfera placida, eterea, dolce, perfettamente antitetica all’apertura.

Weiland è un cantante estremamente talentuoso, rovinato dal suo essere indomito, o meglio, dal suo essere ingestibile. Quel che manca a “Blaster” è proprio una certa disciplina, dato che eterogeneità non è sempre sinonimo di poliedricità: l’una sconfina quasi sempre nel disordine, l’altra va a braccetto con la capacità di unire in maniera organica la varietà.

Album ruffiano quanto basta per suscitare curiosità sia dei rocker, sia dell’ascoltatore di passaggio. Non stupitevi troppo, però, se tra qualche settimana inizierà a prendere polvere sulla vostra disordinata scrivania.



01. Modzilla
02. Way She Moves
03. Hotel Rio
04. Amethyst
05. White Lightning
06. Blue Eyes
07. Bleed Out
08. Youth Quake
09. Beach Pop
10. Parachute
11. 20th Century Boy
12. Circles

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool