Nata e cresciuta in Svezia, origini mediorientali, una formazione artistica che include jazz e teatro, la passione per l'occultismo coveniano: l'assorbimento e la trasvalutazione delle poliedriche esperienze di Shaam Larein non potevano che sfociare in un disco d'esordio i cui colori dominanti sono il bianco e il nero fotografati nel vortice della loro eterna diatriba. Al pari del Laocoonte nella visione del Winckelmann, "Sculpture" trasmette nobile semplicità e quieta grandezza, valori calati in un universo gothic/dark debitore di Chelsea Wolfe, PJ Harvey e Siouxsie & The Banshees, con un pizzico dell'ipnotismo dei Dead Can Dance a completare il tutto.
Ma i brani dell'album, anziché adagiarsi su una mera, seppur affascinante riproposizione di stilemi già noti, vengono circondati da un reticolo ritualistico che si nutre tanto del blues più esistenziale quanto del doom meno asfissiante e monolitico. I controcanti femminili di Linnea Hjertén e Nathalie Ahlbom conferiscono al lavoro i toni della tragedia greca con relativa catarsi, mentre le chitarre perennemente in riverbero spostano le latitudini su un piano mitico, creando le atmosfere e gli spazi per tenui scorribande psych/folk.
Pezzi avvolgenti e disperati, a tratti sferzati dal rock ("Lunar Crater"), quasi sempre tuffati nell'alcova chiaroscurale di Proserpina ("Aurora", "Volcano", Traveler"), qualche volta lasciati crescere nel grembo tribale dell'idioma autoctono ("Zaman"): Shaam Larein si candida, senza ombra di dubbio, a nuova pizia dei tempi moderni.