"There's a void I've been filling for sometime with nothing good".
Sei anni di lunga attesa e di false speranze, una lacuna tangibile quella generata dai californiani Seahaven, che dal 2014 hanno fatto perdere le loro tracce, facendo temere che, sotto sotto, ci fosse ben più di un momentaneo periodo di riflessione. Eppure, in punta di piedi, grazie alla forte spinta di Jake Round, fondatore della label Pure Noise Records, i Seahaven sono riaffiorati in superficie, sbocciati come fiori in un autunno di foglie secche. "Halo Of Hurt" è un disco introverso, tenebroso, riflessivo, un album in bianco e nero, esattamente come ci suggerisce l'artwork. Sensazioni e pensieri si arrampicano tra le sinapsi, associazioni e discussioni interne si mettono in moto nelle nostre meningi, magari guardando la luna oltre i vetri di una finestra appannata, durante una giornata uggiosa e spettrale che inghiotte i vicoli della città.
"Void" apre il platter lentamente, alternando la malinconia di archi e pianoforte allo stridio di chitarre acide in alcune piccole sezioni. La più ritmata "Moon" viene permeata di atmosfere fumose dettate da riff in palm muting, giri di basso libidinosi e la soffice voce di Kyle Soto, che ci prende per mano nelle tenebre della notte. La cadenzata "Dandelion" ci risveglia da un sonno onirico, la splendida "I Don't Belong Here" mette i brividi per la sua delicatezza e per un refrain soave che si intervalla a frangenti elettrici leggermente più spinti. Continuiamo a fluttuare con la marcia della successiva "Lose", forse il pezzo più canonico del disco, per poi toccare terra con "Harbor", dove chitarre squillanti fanno da padrone. "Living Hell" raffredda e oscura l'ambiente con atmosfere conturbanti: i tasti del pianoforte tramano inquieti sotto le mani di Mike DeBartolo, insieme ad un basso lugubre e sostenuto, lasciando campo all'acidità della sei corde. A chiudere il cerchio il lavoro, riportandoci nuovamente tra le stelle, sono gli arpeggi delle tenue "Bait" e la conclusiva "Eraser".
I Seahaven ritornano nel migliore dei modi costruendo un album dal sound agrodolce, perfetta fusione tra uno stile che ricalca le orme del precedente "Reverie Lagoon: Music For Escapism Only" (2014) e nuove influenze. In alcuni punti, sezioni melodiche al piano e chitarre di sonorità pop-rock potrebbero lasciarvi pensare, erroneamente, ad un disco piuttosto easy listening. "Halo Of Hurt", invece, è un album nebbioso, una coltre che vi rapirà al primo ascolto per poi rigettarvi indietro totalmente persuasi: lasciatevi invadere.