Giunti al quarto LP in studio, i Desert Storm rappresentano una sorta di strana creatura all'interno di una scena britannica che di certo, nel mare dei fondamentali contributi alla musica d'ogni tempo e stile, non hai mai ben digerito lo stoner e le sue innumerevoli liaison. A eccezione degli Orange Goblin, che quasi in solitaria si frappongono oramai da anni allo strapotere dell'offerta statunitense in siffatti generi, il Regno Unito sembra incapace di produrre una risposta adeguata: il quintetto di Oxford però, forse anche favorito dalla stagnazione nazionale, utilizza discretamente le carte a disposizione, dimostrando nel corso di due lustri di attività una graduale crescita tecnica e un'attitudine marcatamente groovy che in passato veniva completamente sepolta sotto una spessa coltre di riff sismici e obesi.
Ciò non significa che in "Sentinels" i nostri abbiano smarrito la potenza di un mammuth in progressione, ma emergono robuste dosi psych e graffi heavy metal in grado di regalare ulteriori sfumature al monolite limaccioso del gruppo: un album tuttavia costruito su una serie di attinenze così vicine ai Clutch meno asciutti e ai Down più granitici che non di rado l'ascoltatore smaliziato potrebbe porsi dei punti interrogativi riguardo l'originalità degli inglesi. E dunque, mentre "Omniscient" (2015) lasciava un modico spazio alla dilatazione metafisica, preferendo piuttosto gozzovigliare in un sudicio pastiche arricchito da roventi vibrazioni blues, il nuovo lavoro si dirige prima verso orizzonti squarciati dal sole dopo una tremenda burrasca, poi percorre a passo pesante le zolle rese acquitrinose dalla violenza delle forze della natura, mano nella mano con gli epigoni del southern estremo a stelle e strisce.
"Journey's End" esibisce da subito la componente psichedelica presente nel disco: l'intreccio tra la bassa accordatura delle chitarre, il ritmo cadenzato e le sorvegliate accelerazioni hardcore creano un'atmosfera nelle cui spire non si lascia intrappolare una "The Brawl" dal denso fraseggio e scagliata a velocità sostenuta: le linee vocali di Matt Ryan, spaventosamente simili a quelle di Neil Fallon, uniscono raucedine e corposità nel tratteggiare paesaggi sonori profumati di torba, poesia e fanghiglia. "Gearhead" persevera sulla falsariga del pezzo precedente, al contrario di "Too Far Too Gone", che accoglie un selvaggio growl death nelle pieghe di una struttura complessa ove il genuino approccio rock non preclude alla pesantezza della sezione ritmica e ai giri doomish delle sei corde di mietere la propria unta semenza. Se "Kingdom Of Horns" e "Capsized" testimoniano quanto gli arpeggi melodici e open mind siano penetrati nella pece strumentale della band, resettandone lo status consolidato e proiettandola oltre gli abituali ricami arcigni e minacciosi, il refrain muscolare di "Drifter" e la torrida effettistica di "Extrovert" riportano il combo nei territori familiari di una Louisiana ancora nell'occhio di Katrina: intanto "Convulsion" e la chiusa "Outro: Thought Police" si inseriscono a pieno titolo nella tradizione di uno sludge rotondo e privo di scivolamenti irreparabili nel baratro.
Canicolari e massicci, i Desert Storm non arretrano di fronte ai rischi dell'elaborazione di una proposta sì suggestiva per l'ampliamento della gamma delle variazioni immesse, eppure sovente legata a un sound tutt'altro che scevro da riferimenti sin troppo evidenti: ambiguamente coraggiosi, con il destino scritto nel moniker.