Già l'esordio "Solveig" aveva messo in luce come i Seven Spires non fossero una delle tante band asservite supinamente al verbo di Kamelot, Nightwish, Sonata Arctica e compagnia cantante, nonostante qualche ingenuità e un songwriting spesso troppo dispersivo. Al di là dell'autoimpostasi etichetta di gruppo "theatrical metal", i nostri, con "Emerald Seas", primo album pubblicato sotto l'egida di Frontiers, bazzicano le medesime coordinate dello scorso lavoro, in maniera, però, maggiormente asciutta e versatile: le atmosfere restano avvolgenti e ricche di pathos, ma si riscontra una migliore consapevolezza nell'affrontare generi trasversali, il che permette di ottenere la quadratura d'assetto desiderata.
Adrienne Cowan rappresenta senza dubbio un elemento fondamentale nell'economia stilistica della formazione statunitense: già provvista di un buon curriculum (Avantasia, Sascha Paeth's Masters Of Ceremony, Trick Or Treat), la singer alterna e amalgama con tale noncuranza registri tra loro diversissimi (dal cristallo di Boemia al growl più ferino), che la percezione di trovarsi al cospetto di due interpreti, di cui uno di sesso maschile, rischia di intrappolare l'ascoltatore in un buffo malinteso.
I brani, costruiti su una piattaforma sinfonica tanto tradizionale quanto efficace, e puntellati da evocative melodie arabeggianti, restano impressi grazie alla sua prestazione vocale decisamente sopra le righe: che si tratti di gothic rock ("Ghost Of A Dream", "No Words Exchanged"), black ("Drowner Of Worlds", "Fearless"), power ("Every Crest", "Unmapped Darkness", "Succumb", "The Trouble With Eternal Life"), o soft ballad ("Silvery Moon", "Bury You"), per lei non fa alcuna differenza. Il tutto viene sorretto dall'ottimo guitar work di Jack Kosto, abbastanza inventivo e personale considerando le categorie musicali di riferimento. E non risultare stucchevoli, diventa, per i Seven Spires, una nota di merito non trascurabile.