“Red Hands Black Deeds” arriva a tre anni di distanza da "Smokin' Hearts & Broken Guns", e detiene subito un primato: è il primo album degli Shaman’s Harvest a vedere finalmente a lavoro in studio anche i nuovi membri, per la precisione Derrick Shipp alla chitarra solista e Adam Zemanek alla batteria, subentrati a tour in corso tra il 2014 e il 2015 e ormai sempre più parte di questa band.
Con la nuova formazione, il gruppo ha dato prova di saper rivitalizzare il proprio sound, con un disco che, seppur dai toni accesi, non rinuncia alla melodia e alle parentesi acustiche, con un sapore vintage che scongiura il rischio di ripetitività del Southern Rock, decisamente genere di nicchia e non particolarmente elastico. Brani come “A Longer View” mostrano a pieno il nuovo slancio vitale con un groove irresistibile che diverte dal primo ascolto. Il disco si arricchisce brano dopo brano di elementi diversi ma in linea con il nuovo stile a cui Nathan Hunt e co. sembrano ora essere approdati. Spiccano le contaminazioni country e folk di “Off The Tracks” e i toni classicheggianti di “Long Way Home”, che rimandano improbabilmente addirittura a Joe Cocker e che fanno da contorno a brani più canonici e nelle corde del gruppo come “The Devil In Our Wake” o l’ottima “Blood Trophies”, dotata di un profilo vocale di assoluto pregio e di un assolo sul finale da graffiare il muro. Stesso discorso per “Broken Ones”, esplosivo incipit del disco con un’escalation di chitarre aggrappate alla certezza ritmica del basso di Matt Fisher, basso che si distorce ancora di più innescando un discreto connubio di chitarra, voci e cori in “So Long”, senza dubbio uno dei migliori brani del disco. La conclusione di “Scavengers”, nebulosa ballad dai cori e gli echi oscuri che nasconde una piacevolissima ghost track dal retrogusto tremendamente anni ‘50, rappresenta una classica chiusura ad anello che si va a ricongiungere con la sopita pacatezza dell’omonima traccia introduttiva del disco.
“Red Hands Black Deeds” è l’album di cui gli Shaman’s Harvest avevano bisogno.
I toni cupi, gli assoli selvatici e i ritmi più ruvidi si sposano più che bene con le sfumature vintage e con quelle Folk, il tutto tenuto assieme dalla certezza vocale di Nathan Hunt che figura come un vero e proprio trasformista all’interno del disco, adattando perfettamente la performance al contesto, grazie ad un range vocale fuori dal comune. Un album che può rappresentare una svolta nella carriera della band e che traccerà senza dubbio un'evoluzione nella concezione stilista e musicale dei brani del gruppo da qui in avanti.
I toni cupi, gli assoli selvatici e i ritmi più ruvidi si sposano più che bene con le sfumature vintage e con quelle Folk, il tutto tenuto assieme dalla certezza vocale di Nathan Hunt che figura come un vero e proprio trasformista all’interno del disco, adattando perfettamente la performance al contesto, grazie ad un range vocale fuori dal comune. Un album che può rappresentare una svolta nella carriera della band e che traccerà senza dubbio un'evoluzione nella concezione stilista e musicale dei brani del gruppo da qui in avanti.