Shores Of Null
Beyond the Shores (On Death and Dying)

2020, Spikerot Records
Doom metal

Recensione di Isadora Troiano - Pubblicata in data: 28/11/20

Questa recensione inizierà con un’affermazione forte, probabilmente esagerata, ma difficilmente confutabile: in Italia un gruppo come gli Shores Of Null e un disco come “Beyond The Shores (On Death and Dying)” semplicemente non ce li meritiamo. La difficoltà dell’underground ad uscire dalla nicchia e arrivare al grande pubblico in Italia sono più che note e ingiustamente una regola: un lavoro come questo dovrebbe avere ancora più valore e più diritto di essere ascoltato e apprezzato.
 
Si tratta, per cominciare, di un album composto da una sola unica traccia, della durata di 38 minuti, qualcosa di decisamente sui generis e che definisce immediatamente e in modo chiaro le intenzioni degli Shores Of Null: portare alle orecchie dell’ascoltatore un prodotto nuovo, che esuli dai classici canoni e che rimanga nella memoria. Per farlo, la compagine romana si è messa in gioco senza remore e ha schierato in campo, oltre alle proprie forze, ospiti di rilievo del panorama doom/death internazionale come Mikko Kotamäki degli Swallow The Sun e Thomas A.G. Jensen dei Saturnus. “Beyond The Shores” è un lavoro corale, stratificato, complesso e non è sicuramente un ascolto immediato, ma un album che colpisce ascolto dopo ascolto, scoprendo uno strato dopo l’altro. Il disco si apre con il rumore del vento, subito accompagnato dalle note delicate di un violino, a cui si innestano dopo poco batteria e strumenti elettrici, che fanno da contrappunto al riff principale di questa prima parte del brano.
 
A fare da filo conduttore di tutta la composizione, ovviamente incentrata sul tema della morte, purtroppo più che mai attuale, c’è la teoria delle cinque fasi del lutto, formulata dalla dottoressa Elisabeth Kübler-Ross nel 1969, che sono rifiuto, rabbia, negoziazione, depressione ed accettazione. È importante tenerlo a mente per comprendere appieno il disco e le varie fasi di questo lungo brano, perché sia il potente testo, scritto dal frontman Davide Straccione, che ogni singolo elemento musicale vanno ad elaborare tutti gli aspetti del tema proposto. Nei primi minuti la delicatezza della melodia del violino si intreccia con la potenza delle chitarre e il ritmo lento e funereo di basso e batteria sembrano preannunciare l’arrivo del triste mietitore con armonie che ricordano i Baroness, struggenti e malinconiche, accompagnate dalla voce pulita del cantante. L’atmosfera si fa bruscamente più cupa e furente con l’ingresso della voce in growl, che chiaramente esprime la fase del rifiuto dell’ineluttabile, ripetendo spesso “Why? Why me?”, il tutto sottolineato da accordi di chitarra decisi e prolungati e dalla sezione ritmica cadenzata e mesta. Tutto cambia ancora quando si apre la fase della negazione, con basso e batteria che spingono sull’acceleratore e le chitarre si fanno più aggressive e graffianti, mentre la voce pulita e quella in growl si uniscono in un crescendo emotivo che sfocia in un nuovo cambio di ritmo. La nuova sezione del disco/brano si basa su un riff ripetuto ossessivamente dalle chitarre e in uno struggente ritornello che dichiara “Life is at war with us” e che ritorna alla melodia iniziale, prima eseguita dai violini ed ora dalle sei corde delle chitarre. Il growl si fa profondo, quasi a simulare la discesa nella fase della depressione, oscura, drammatica, per poi tornare sul pulito e culminare nel lungo spleen dell’assolo di chitarra. Da qui si leva ancora la voce pulita del cantante, che questa volta si completa con la bella voce di Elisabetta Marchetti degli Inno, un’altra band italiana molto apprezzata nel genere. La doppia linea vocale maschile e femminile tocca il punto più lirico del disco, che parla di disperazione, di senso di perdita e sconfitta, avvolto dal turbinio dolente delle chitarre e dalla ritmica devastante di basso e batteria. Un lungo assolo di pianoforte segna un nuovo capitolo del disco: un nuovo, ossessivo riff si ripete mentre la voce clean e quella in growl tornano protagoniste e descrivono la discesa finale verso l’accettazione della morte. Queste due parti ricorrono fino alla fine del disco, alternandosi e sottolineando ancora di più la spirale discendente di questo viaggio attraverso uno dei temi più misteriosi, temibili, ma allo stesso tempo affascinanti del genere umano.
 
Mentre i suoni di un temporale e di nuovo le note del violino chiudono questo lunghissimo brano, non si può fare a meno di pensare che gli Shores Of Null abbiano vinto la loro scommessa. La cura dei dettagli di ogni parte sia musicale che vocale, gli imponenti riff scritti dai due chitarristi Raffaele Colace e Gabriele Giaccari, autori, tra l’altro, di tutte le parti strumentali, la possente sezione ritmica di Matteo Capozucca al basso e Emiliano Cantiano alla batteria e la voce del cantante Davide Straccione risultano convincenti nell’esperimento di un disco così sfidante e complesso. Un disco come un buon vino da meditazione, da ascoltare e riascoltare per coglierne ogni dettaglio.




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