Ci approcceremo dunque a quest'opera seconda fingendo di non sapere che Martin Lopez deve la sua notorietà alla lunga e fruttuosa militanza negli Opeth, e di dimenticarci le pesanti, inequivocabili somiglianze della sua nuova band con i Tool (e, per transitività, con gli A Perfect Circle), giudicando "Tellurian" per ciò che è: dietro una raccapricciante copertina quel che si cela è un prog metal elegante, malinconico, compassato nel'incedere ma aperto a sfuriate di doppio pedale sui momenti di maggior crudeltà, carezzato da arpeggi clean tanto quanto frustato da risolute muraglie di salti stoppati sul manico delle sei corde. Lungo la tracklist si trova così posto per atmosferiche aperture d'innegabile, aggraziata efficacia, come nell'ottima "The Words" (splendida ballata in cui la voce di Joel Ekelöf si rende protagonista di un emozionante crescendo vocale) o dai toni soffusi -che suggerirebbero quasi un'azzardata etichetta "post"- del bridge dell'altrettanto morbida "Pluton" (sui primi secondi di questa anche notevoli avvolgimenti di rapide plettrate alla chitara e liquidi tocchi di basso); ma, al tempo stesso, c'è ampio spazio per la granitica rabbia dei riff circolari di una "Ennui", o della violenza djenty della conclusiva "The Other's Fail", in quella che complessivamente è una continua, implacabile altalena emozionale tra schizofrenia e quiete.
Ma "Tellurian", alla lunga, diviene vittima di questa stessa continua oscillazione, reiterata anche all'interno degli stessi brani (gli sbalzi incessanti di "Kuraman") e in generale mantenuta uguale a se stessa per l'intero minutaggio. Pur avendo alzato sensibilmente il livello qualitativo rispetto all'esordio (che offriva una discreta "Savia" e null'altro di rilevante), dunque, i Soen restano fin troppo piatti e prevedibili, e sempre ben lontani -paragoni scomodi o meno- dal guidare lungo un intero album senza lasciare, se non annoiati, quantomeno leggermente perplessi.