La musica prog sta vivendo una nuova giovinezza. Da una parte un pubblico dal palato via via più raffinato, dall'altra il proliferare di sempre più talentuosi nuovi interpreti stanno facendo sì che questo genere si evolva attraverso intricati e inediti percorsi, mischiando componenti e generi in una tavolozza sulla quale distinguere i colori primari è impresa ardua.
Cosa può significare allora, in questo contesto, essere un membro della cosiddetta vecchia guardia del prog? Be', se sei Steve Hackett e, oltre che su tecnica e qualità innate, puoi contare su una così marcata attitudine al rinnovamento, nulla di particolare. Gli oltre 40 anni di esperienza solista hanno infatti preso un virtuoso chitarrista in uscita da una band leggendaria e lo hanno trasformato in un artista a tutto tondo, in grado di mostrare di volta in volta nuove sfaccettature del proprio genio creativo, sempre in un modo tutt'altro che vetusto. 40 anni che ci hanno dato prova dell'ubiquità artistica e culturale di un uomo che non si stanca mai di esplorare e descrivere realtà geografiche, tematiche e musicali remote e che portano oggi a quello che è un nuovo, attesissimo lavoro in studio - ventiseiesimo in carriera - dal titolo "At The Edge Of Light".
Reduce dal grande successo di "The Night Siren" e di un tour che ha riportato in scena i fasti dei Genesis del periodo migliore, Hackett presenta il suo nuovo capitolo discografico come ben lontano da una mera collezione di tracce, ma come un viaggio in territori musicali ancora inesplorati, luoghi in cui il chitarrista si sente finalmente un tutt'uno con le sue creazioni. Un album molto cinematografico, come la solennità orchestrale liberata dalla sezione di archi una volta squarciata la breve intro di "Fallen Walls And Pedestals" a colpi di percussioni. Questo forte connotato quasi da soundtrack trova continuità nel finale dell'intensa "Beasts In Our Time", così come nell'epicità delle diverse sezioni sinfoniche del disco, che il chitarrista britannico incalza con taglienti riff e illumina con lunghi assoli.
Hackett viaggia moltissimo, nello spazio e nel tempo, e per questo si serve di una moltitudine di musicisti di livello e di strumenti da imbracciare lui stesso. Il prezioso contributo vocale delle sorelle Druga e Loreley McBroom arricchiscono una bellissima "Underground Railroad", richiamo al più ruvido folk delle lande del west, ricreato dal sapiente uso di armonica e dobro da parte di Hackett, mentre le movimentate suggestioni indianeggianti di "Shadow And Flame" sono magistralmente portate in vita da tar (Malik Mansurov), sitar (Sheema Mukherjee) e Didgeridoo (Paul StillWell). Il maestro riabbraccia ovviamente i Genesis ("Those Golden Wings" su tutte) e fa un inchino alla sezione ritmica degli Yes in "Under The Eye Of The Sun", pezzo che evoca fortemente il ricordo del compianto amico Chris Squire.
L'epilogo dell'album arriva poi con un trittico altamente concettuale, in cui la lenta ed inesorabile marcia di "Descent" non può altro che portare al conflitto ("Conflict"), prima che una nuova pace ("Peace") dal vago sapore di Marillion lasci l'ascoltatore con un'ondata di speranza finale.
"At The Edge Of Light" è il più che degno erede di "The Night Siren" e mostra anzi per lunghi tratti una compattezza maggiore rispetto al suo predecessore. Tra le 10 tracce proposte è francamente difficile trovarne una debole o fuori luogo (forse "Hungry Years"?) e l'ascolto per intero dell'album è di immediato coinvolgimento. Insomma, un'altra chicca da poterci godere da parte di un talento attivo e propositivo anche alla veneranda età di 68 anni, che certo non si accontenta di vivere nel passato e adagiarsi sugli allori di una carriera strepitosa.