Steven Wilson

2016, KScope
Prog Rock

Non di soli concept vive l'uomo...
Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 21/01/16

Non stupisce che, tra la mole di bozze e jam che la costruzione di suite di 10 minuti richiede, un cantautore prog si trovi per le mani una quantità immane di materiale pubblicabile ma ancora non pubblicato, e che decida prima o poi (più o meno spontaneamente) di dargli una qualche forma, da qualche parte. Un'appendice, un bonus disc, qualcosa. Può stupire, semmai, vedere che a pubblicare un intero album di outtakes sia Steven Wilson, musicista da sempre maniacale nel curare ogni minima sfaccettatura delle proprie pubblicazioni, sempre dedito alla cesellatura di operette progressive coese dalla prima all'ultima nota - che si trovino a raccontare di fantasmi, di incidenti mortali, del tempo che scorre, di soffocante solitudine.

E invece, "" è un album che, di fatto, non vuol raccontare niente. Una release "just for fans", come lo stesso occhialuto polistrumentista tiene a ribadire più e più volte (a partire dall'eloquente titolo), quasi inquietato dall'idea di inquinare il fluire delle sue release principali con composizioni da lui stesso concepite. Composizioni che, peraltro, grondano dal primo all'ultimo istante poetica indiscutibilmente e riconoscibilmente wilsoniana. O ancor meglio, nello specifico, poetica wilsoniana degli anni '10: tolti infatti l'interlocutorio melange di elettriche prog e pop acustico di "Happiness III" (brano la cui prima stesura risale addirittura al 1998) e il rifacimento in chiave femminile di "Don't Hate Me" (stupenda già nel 2008, adesso resa meno opprimente dell'originale e anche un po' più sensuale dagli squittii dell'affezionata Ninet Tayeb), a completare la tracklist sono pezzi tirati fuori dalle sessioni di registrazione di "Hand.cannot.erase", con il quale dunque questa pubblicazione riesce a tracciare un indiscutibile continuum.

Nell'inevitabile limite della loro natura strumentale, "Year Of The Plague" (sognante ed eterea ninna-nanna di archi e acustica) e "Vermilioncore" (ossessionante riff di basso estremizzato da sfrigolanti sintetismi a la King Crimson) sembrano volersi imporre come nuove e silenziose declinazioni del peregrinare tra antitetici stati d'animo di una "Perfect Life", o piuttosto di una "Ancestral". Ma è specialmente l'opener "My Book Of Regret" ad abbracciare in meno di dieci minuti quasi tutti gli aspetti del Wilson moderno: frizzanti chitarre che guidano strofe dal fascino brit verso ritornelli sciorinati nel solito suggestivo falsetto, ma soprattutto una sontuosa sezione centrale, che riesce ad accostare una bestiale esibizione di muscoli di Guthrie Govan e delle sue sei corde e una lentissima peregrinazione in territori angosciosi e notturni, tra echi di sussurrate armonizzazioni.

Va a finire che la natura dichiaratamente "inferiore" di "4½", unitamente alla sua pubblicazione quasi inaspettata, ci porta ad essere colpiti dai pezzi che lo compongono quasi più di quanto lo saremmo stati in sede di un nuovo album "ufficiale". L'ultimo di Wilson è un breve dischetto che, senza dubbio, trova ideale collocazione sugli scaffali dei fan più accaniti, ma che -siamo pronti a scommetterci- non avrà difficoltà, al termine dell'appena iniziato 2016, ad essere qualitativamente superiore a una buona metà delle uscite "principali" di artisti di simile blasone. E potenzialmente, in qualche misura, a portare nuovissimi adepti al culto del più influente profeta del progressive moderno.



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