I Dead Lord irruppero sulla scena hard rock nel 2013 con la pubblicazione dell'ottimo "Goodbye Repentance", e da allora gli svedesi, notati da Century Media, si sono resi protagonisti, a scadenza biennale, di un altro paio di full-length, "Heads Held High" (2015) e "In Ignorance We Trust" (2017). Una regolarità che ha permesso alla band di consolidare il proprio sound in qualcosa di riconoscibile, nonostante i numerosi e agguerriti epigoni presenti nell'ambito della retromania musicale.
E, dunque, sia chi abbia già familiarità con lo stile del combo nordico, sia chi si avvicini loro per la prima volta, sarà felice di scoprire che il nuovo "Surrender" non si discosta più di tanto dagli scorsi lavori, restando affettuosamente legato a un euforico recupero degli anni '70. In particolare, le sequenze di armonizzazione a doppia chitarra, i battiti sincopati della batteria e i refrain compatibili con il semplice sing-along, che contraddistinguono brani rotondi e schietti quali "Authority", "Evil Always Wins", "Bridges", ricordano molto da vicino i Thin Lizzy, una sorta di perpetuo gruppo di riferimento per gli scandinavi.
Certo, il problema principale risiede nel fatto che a distinguere l'act di Stoccolma dalla storica formazione irlandese provvede soprattutto la voce del leader Hakim Krim; eppure i pezzi, dal groove irresistibile e venati da una leggera patina di malinconia, filano via che è un piacere, e malgrado al singer possa mancare quel fascino da poeta romantico e malizioso esibito illo tempore dal compianto Phil Lynott, ciò nulla toglie alla contagiosa efficacia del disco. Di cui, in aggiunta, si apprezzano anche delle variazioni interessanti, come gli abbozzi country di "Messin' Up" e le linee NWOBHM di "Distance Over Time" e "Distopya".
Privi della sfacciataggine dei Greta Van Fleet e meno creativi dei compatrioti Horisont, i Dead Lord si pongono nel mezzo e riescono, con "Surrender", a confezionare un LP ritmato, accattivante e provvisto altresì di una discreta versatilità. Buona la quarta.