Dopo la calda accoglienza riservata da stampa di settore e metalfan al loro lavoro d'esordio "What The Oak Left" - 172esimo posto nella iTunes metal chart italiana - , gli Atlas Pain sono adesso pronti a spingere l'ascoltatore in un'inebriante epos steampunk, in viaggio verso la fine del mondo, facendogli scoprire luoghi ignoti e fiabeschi e culture occulte. Siamo a Londra, 1899; si annuncia il varo della più spericolata spedizione mai tentata: un viaggio di liberazione dal dominio delle macchine e del vapore che per lungo tempo hanno oppresso l'uomo.
Dall'opener "The Coldest Year" sino alla conclusiva "The First Sight Of A Blind Man" si dipanano i brani come capitoli di un'unica narrazione, isole sulla medesima rotta; dal punto di vista musicale, il lavoro si situa in una posizione di tutto rispetto nell'attuale panorama europeo pagan metal, declinato all'epico. Come per il precedente lavoro, il suond è potente e nitido, la produzione attenta alle sfumature, il songwriting solido. Forse unica pecca che possiamo imputare alla band (sempre che non sia una scelta consapevole) è una certa ripetitività nel ricorrere a soluzioni che sono, d'altra parte, il sale di chi segue ed ama l'epic/speed/power/pagan.
Né possiamo imputare alla band un'eccesso di "cantabilità" (certo, il vocale è growl; ma c'è growl e growl...); convince a pieno l'artwork a cura di Jan Yrlund (Korpiklaani, Manowar, Apocalyptica). Tra le tracce, spicca la suggestiva "Kia Kaha" con il suo incedere rituale e i cambi di tempo coinvolgenti; a noi, piace molto quando la band vira un poco verso il thrash/death, come in "Shahrazād", o quando distende il suo tappeto narrativo, come nella vasta e ambiziosa "Homeland". Insomma, un lavoro che convince ed in grado di sedurre anche chi non ama visceralmente il pagan metal o l'epic, che non è dir poco.