Articolo a cura di Luca Barenghi
Come scritto nel titolo di una famosissima raccolta di racconti di Stephen King, ci sono cose che "a volte ritornano". Ed esattamente come i quattro diabolici teppisti all'interno dell'eponimo racconto scritto dal re dell'horror americano, quest'ultima, torrida settimana di giugno vede il ritorno di una delle rock band più attese di tutto il 2019: i Black Keys. Cinque lunghi anni sono infatti passati da quando Dan Auerbach (chitarra e voce) e Patrick Carney (batteria) sfornarono "Turn Blue", un album tanto apprezzato quanto discusso, a causa delle sue sonorità pop/soul estremamente distanti rispetto al sound consueto della band, così meravigliosamente ruvido e grezzo, divenuto nel corso degli anni il proprio marchio di fabbrica. Durante questo lustro, sia Dan che Pat hanno deciso di prendersi una meritata pausa dal gruppo: il primo dedicandosi ad un notevole side-project come i The Arcs ("Yours, Dreamly", 2015) e alla carriera solista ("Waiting on a Song", 2017), il secondo reinventandosi produttore musicale di album come Hopeless Romantic di Michelle Branch e Double Roses di Karen Elson, ex-moglie di Jack White, entrambi usciti nel 2017.
Tuttavia, come spesso accade, tanto più ci si allontana da casa, tanto più si ha voglia di ritornarvi. Ed è proprio con "Let's Rock", il loro ultimo lavoro, che i due musicisti di Akron, sonnolenta cittadina del nord-est dell'Ohio, sanciscono, come il figliol prodigo, il loro ritorno nella casa paterna: a un blues-rock scarno, lacerato, privo di fronzoli e impreziosito da quel retrogusto di garage losco che da troppo tempo non compariva nei loro dischi. Per questo "ritorno alle origini" la band ha attuato delle scelte estremamente coraggiose, presentandosi agli Easy Eye Sound Studios di Nashville senza aver preparato alcun brano in anticipo, dando libero sfogo all'ispirazione del momento, ma, soprattutto, senza Danger Mouse, loro produttore da più di dieci anni, sotto la cui egida il duo ha sfornato i suoi due lavori più importanti, "Brothers" (2010) ed "El Camino" (2011).
Il risultato di questo metodo "less is more" sono 12 pezzi di rock sincero, spogliato di qualsiasi tipo di orpello, al cui interno svetta in maniera dominante quella che è e sempre sarà, nonostante tutto, la spina dorsale della musica rock: la chitarra elettrica. Perché, proprio come il titolo e la copertina dell'album suggeriscono, il filo conduttore che percorre i 40 minuti attraverso i quali quest'album si snoda sono le varie sfumature di elettricità assunte dalla "sporca dozzina" di brani che lo compongono: dall'epica apertura a base di chitarra fuzz di "Shine A Little Light" al blues sporco, degno del miglior Muddy Waters, di "Eagle Birds", passando attraverso l'infuocata parte centrale del disco, la cui fiamma viene magistralmente tenuta viva da "Lo/Hi", "Tell Me Lies" e "Go", fino ad arrivare al meraviglioso e conclusivo trittico rappresentato da "Breaking Down", "Under The Gun" e "Fire Walk With Me". "Let's Rock" sfodera, come un fucile a ripetizione, brani tiratissimi - nessuno di loro infatti supera la barriera dei 4 minuti - di rock schietto e sincero fino al midollo, fallacemente tacciato da alcuni come "troppo frettoloso e acerbo". Tuttavia, diffidate da chi dice tali assurdità, perché in un panorama come quello del rock contemporaneo, dominato dalla pomposità di concerti fatti più dai megaschermi che dalla musica stessa e da band di ragazzini che cercano di emulare in tutto e per tutto band del passato, che hanno sì fatto la storia ma 40 anni fa, la semplicità e la spontaneità sono concetti divenuti ormai rari come un cinese biondo naturale. Perciò l'unica cosa che viene spontanea da dire alla fine dei 40 minuti di "Let's Rock" è: "Grazie davvero Black Keys... E per l'amor di Dio continuate così!".