Nothing
The Great Dismal

2020, Relapse Records
Shoegaze

Recensione di Giampiero Pelusi - Pubblicata in data: 09/11/20

In un'oasi di malinconia come questo 2020, non potevamo che ritrovarvici immersi i Nothing di Domenic Palermo, da anni abituati a nuotare incauti nelle burrasche della vita quotidiana e dei sentimenti più angosciosi. "The Great Dismal", quarto album in studio pubblicato da Relapse Records, riprende in mano il tema dell'isolamento e della solitudine più infausta e minacciosa, toccando e amplificando temi nichilistici che permeano da ormai un decennio l'indole musicale del quartetto di Philadelphia.

 

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Con l'uscita silenziosa di Brandon Setta dalla band ed il conseguente rimpiazzo con Doyle Martin dei Cloakroom , Domenic Palermo si è ritrovato a metter su un seguito migliore di "Dance On The Blacktop" (2018), che non aveva convinto a pieno la critica a causa di una produzione piuttosto scarna e di pezzi poco ispirati. I tempi di un capolavoro come "Guilty Of Everything", capace di riscrivere le regole di un genere che sembrava ormai morto e sepolto, sono ormai lontani e, inevitabilmente, le idee musicali virano verso nuovi orizzonti. "The Great Dismal", infatti, ripresenta gli stilemi canonici del sound shoegaze nothingiano, farcendoli con qualche chicca innovativa: ritornano le chitarre fuzzate e distorte in pezzi come "Famine Asylum", "April Ha Ha" e "Ask The Rust", che strizzano l'occhio agli Smashing Pumpkins di "Siamese Dream", forse la fonte d'ispirazione più limpida di tutto il concept musicale di Palermo e soci, "A Fabricated Life" e "Catch A Fade" ammorbidiscono l'ascolto con suoni più puliti e tenui. L'intero platter è dominato da una malinconia di fondo ben marchiata e pezzi come "In Blueberry Memories" e "Blue Mecca" ne sono l'esempio lampante: la prima capitanata da un riff portante deciso che spiana la strada a un ritornello ben levigato, la seconda più felpata e accompagnata dalla voce avvolgente e quasi sussurrata del frontman. Ma i pezzi che rimangono maggiormente in rilievo sono proprio i primi due singoli estratti: "Say Less" si stampa in testa con un intro di batteria serrato che cede il posto a fendenti noise, fattori dominanti di un pezzo stravolto da un senso di inquietudine lampante che cresce ascolto dopo ascolto. "Bernie Sanders", invece, si rivela il pezzo più radiofonico del lotto con melodie più catchy e piccoli inserti synth-pop che si concatenano fino a generare un incedere danzereccio e sensuale.

 

"The Great Dismal" conferma ancora una volta le qualità compositive della band e del suo inguaribile frontman, che trasforma tutte le disgrazie che tocca in oro musicale. Grazie a una produzione curata e cesellata a firma di Will Yip (Tired Of Tomorrow), il full length risolleverà sicuramente l'animo dei fan rimasti delusi dal predecessore. Nonostante ciò, l'album stenta a decollare fino alla fine e la sensazione di viaggiare quasi sempre sulla stessa lunghezza d'onda senza mai oltrepassare una certa soglia incide su tutto l'ascolto. Ciò, però, non abbassa di troppo il livello di una buona composizione: Palermo e i suoi decidono di esplorare nuove prospettive musicali, ma senza varcare confini potenzialmente rischiosi di un'idea che, in fin dei conti, ha funzionato bene fino a oggi. Una palude rancida e accogliente si estende dalla Pennsylvania fino a bagnare le coste dei nostri animi spezzati: non rimane altra scelta che immergersi con loro. 





01. A Fabricated Life
02. Say Less
03. April Ha Ha
04. Catch A Fade
05. Famine Asylum
06. Bernie Sanders
07. In Blueberry Memories
08. Blue Mecca
09. Just A Story
10. Ask The Rust

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