Già il monumentale "The Similitude Of A Dream" (2016), doppio concept album ispirato al libro di John Bunyan "The Pilgrim's Progress", sembrava un'impresa complicata da proporre nuovamente in termini di qualità e durata. L'uscita, tre anni dopo, di "The Great Adventure", diretta prosecuzione del platter anteriore sia a livello tematico che musicale, attestava come fosse possibile ripetere determinati exploit quando gli interpreti in questione rispondano ai nomi di Neal Morse, Eric Gillette, Mike Portnoy, Randy George e Bill Hubauer. Non un supergruppo, ma una band stabile e capace di spartirsi in maniera equanime il processo compositivo e la prova vocale, lasciando in toto al leader la sola scrittura dei testi, impregnati di quel Cristianesimo riformato a lui tanto caro.
La tappa a Brno del "The Great Adventour 2019", congelata perfettamente su disco, lascia a bocca aperta, non soltanto per l'abilità conclamata degli attori impegnati nella performance, ma anche per l'equilibrio emotivo raggiunto on stage dall'interazione di note e testi. La storia, divisa in cinque capitoli per oltre cento minuti di running time, appare costruita al pari di un vero e proprio romanzo, attraverso continui rimandi interni e un'atmosfera generale più buia e drammatica se confrontata alla fisionomia del predecessore. I momenti solari, di riflesso, avvampano di un'intensità accecante e il viaggio del protagonista Joseph, costantemente in balia dell'angoscia e della speranza, viene narrato dal quintetto con straordinaria partecipazione.
La dimensione live permette che il telaio progressive nel quale si incastonano gli episodi del racconto proceda con ancora maggiore fluidità rispetto alla versione in studio, tra episodi spigliati e incisivi ("Welcome To The World", Dark Melody", "I Got To Run", "Fighting With Destiny", "Welcome To The World 2", "The Great Despair") e altri più leggeri e sognanti ("To The River", la Yes oriented "The Great Adventure", "Long Ago", il piacevole AOR di "Vanity Fair"). Una trama di melodie ricorrenti annoda il filo della trama sonora e letteraria, mentre le splendide "Overture", nella seconda delle quali si intravedono le ombre familiari dei Dream Theater, hanno il compito di battezzare sontuosamente i due atti dell'opera. E nonostante qualche ballad di troppo tenda ad affievolire il clima di esaltazione generale, il lavoro in sé e la prestazione restano da manuale. Funambolici.