Yes
The Quest

2021, Inside Out Music
Progressive Rock

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 01/10/21

Dopo la grossa delusione di "Heaven & Earth" (2014), che sembrava mettere una pietra tombale su una carriera lunga un abbondante mezzo secolo, gli Yes tornano clamorosamente in pista con un LP nuovo di zecca, il primo privo dell'apporto del compianto Chris Squire, deceduto nel 2015. Nonostante la pesante perdita, invero una delle tante visti i diciannove membri alternatisi in line-up durante i lustri, il gruppo è ripartito a tavoletta, ri-reclutando al basso una vecchia conoscenza, Billy Sherwood, già collaboratore a vario titolo, nel lontano e recente passato, dei britannici. Il chitarrista Steve Howe costituisce ormai l'unico appiglio storico con la formazione capace di canonizzare il progressive rock e dettarne le regole - per certi versi più degli stessi King Crimson e dei Genesis - grazie a capolavori quali "The Fragile" e "Close To The Edge" e a quel "Tales From Topographic Oceans" tanto mastodontico quanto pretenzioso, che pose fine a un periodo di splendore creativo mai eguagliato successivamente.

 

Il mondo colorato e fiabesco tipico dell'immaginario degli albionici viene riproposto in questo "The Quest", superiore al suo pessimo predecessore sia per una maggiore solidità del songwriting, arioso ed equilibrato, sia per produzione e arrangiamenti, ottimi nel restituire un sound fluido e naturale, con elucubrazioni, sofisticherie e forzature messe nel dimenticatoio. L'ampio ventaglio tecnico dei musicisti e l'influenza della miriade di progetti paralleli da loro condivisi rendono abbastanza policromi i vari brani che, fortunatamente, appaiono alieni da boriosi arzigogoli esecutivi come da riferimenti troppo invasivi a entità altrui (Asia in primis). A coronare il tutto, il classico artwork a sfondo fantasy di Roger Dean, garanzia di qualità anche nei momenti meno fulgidi della band.

 

Non esistono, oggi, collisioni e fratture nel soft prog a tinte commerciali degli inglesi, i riff e i ritornelli volano leggeri e vaporosi, le melodie carezzano e avvolgono, le delicate orchestrazioni e i sintetizzatori guidano e dilatano dei pezzi tenuti adesi in un insieme omogeneo dalla vocalità fusiforme di Jon Davison. Spiccano, nel lotto, il piglio energico e i botta e risposta strumentali di "The Ice Bridge", i paesaggi assolati di "Dare To Know" e "Music To My Ears", l'eleganza formale di "Minus The Man" e "The Western Edge", il relax acustico di "Future Memories" e "The Living Island", i freschi passaggi funk di "Leave Well Alone": canzoni che giocano sull'enfasi senza scadere nel barocchismo melenso, e nelle quali il gusto dell'armonia e del cesello soave prevale sul resto, irrorando di simmetria e calore liriche ispirate ai temi dell'ambiente e dell'atteggiamento dell'uomo nei suoi confronti. Curiosa, poi, benché non inedita, la scelta di aggiungere un secondo disco di quindici minuti, composto da tre bonus track di cui due, "Sister Sleeping Soul" e "Damaged World", seguono il fil rouge del platter, mentre "Mistery Tour" rappresenta un divertito - e divertente - omaggio ai Beatles.

 

Potremmo definire "The Quest" una versione disossata del sinfonico "Magnification" (2001), ultima fatica in studio del combo anglosassone con la presenza di Jon Anderson? La risposta, affermativa, non riduce al minimo il valore di un album che brilla di luce propria, e che consente agli Yes di rientrare dalla porta principale di un genere che essi medesimi hanno contribuito a plasmare. Si evitino, però, scomodi paragoni con i gloriosi anni '70.





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