Si può fare prog rock-metal abbarbicandosi ai classicismi del proprio mondo ma riuscendo ad apparire ugualmente come una ventata di freschezza per l'ambiente? Pare che fosse proprio questo l'obiettivo postosi dai The Sixxis, al momento d'entrare in studio per incidere "Hollow Shrine": sfornare un sound che si trattenga ad enorme distanza dalle nuove morbidissime linee evolutive del genere, senza però cascare nell'insidia di porsi come superflua aggiunta all'elenco d'emuli di Dream Theater e simili.
Ed è proprio per questa coraggiosa apertura -prima ancora che per una buona produzione affidata alle sagge mani di David Bottrill, o per una discreta perizia strumentale- che l'esordio dei cinque ragazzi di Atlanta ha la possibilità di dire la propria in un ambiente già da tempo saturo, con le chitarre di una "Weeping Willow Tree" che s'incupiscono e si flettono a seguire insolite traiettorie grunge (non a caso la band cita Soundgarden e Alice In Chains tra le influenze, insieme a Rush, Kings X e improbabili System Of A Down), le voci e le atmosfere di una "Get Out Alive" che rallentano e si perdono in un teatrale drammatismo che fa un po' Sonata Arctica, i riff di "Home Again" che s'intrecciano a comporre il canovaccio di un potenziale singolone di vecchio melodic rock, i minutaggi delle canzoni che restano quasi sempre attorno ai quattro minuti garantendo a ciascun brano la giusta dose di immediatezza e di ricordabilità.
Rimangono in tracklist, comunque, enormi ingenuità (i disarticolati allacciamenti strofa-ritornello dell'opener "The Dreamers" o il tedioso hard rock di "Nowhere Close" o "Long Ago", per citarne alcuni). Ma per quanto "Hollow Shrine" non competerà di certo al titolo di disco prog dell'anno (e nemmeno del mese) rimarrà in ogni caso una vetrina con qualche disorganizzata, acerba idea. Magari i The Sixxis hanno davvero le carte vincenti per diventare una validissima band: quel che è certo è che per portersele giocare dovranno rendere meno ingenua e fastidiosamente stantia la propria proposta.