Queensrÿche
The Verdict

2019, Century Media Records
Heavy Metal

La versione 2.0 dei Queensrÿche non è mai stata così graffiante
Recensione di Matteo Poli - Pubblicata in data: 05/03/19

Alla fine il lavoro dà i suoi frutti. Questo viene da pensare ascoltando l'ultima fatica dei Queensrÿche, giunti a "The Verdict" sedicesima tappa del loro percorso musicale, che si snoda ininterrottamente da trentacinque anni passando per cambi di line-up, drammatiche defezioni - come quella dello storico singer Geoff Tate nel 2012, a cui seguirono fastidiosi strascichi legali sui diritti di utilizzo del nome e l'inaudita pubblicazione di due album ("Frequency Unknown" e il S/T )di due diverse band con il medesimo nome nel 2013 - , successi clamorosi ("Empire", il celebratissimo "Operation Mindcrime") e flop altrettanto importanti (i lavori della seconda metà dei Novanta).


Da sette anni dietro i microfoni, Todd La Torre merita - se già non li ha meritati prima - i plausi per la sua capacità di condurre la band a nuovi lidi senza tradirne lo stile classico, caro ai vecchi seguaci. Il suo arrivo è il più riuscito avvicendamento dietro ai microfoni, noi crediamo, nella storia del metallo. Molto più ruvido e scarno del precedente "Condition Hüman" del 2015, "The Verdict" riporta con classe l'incrociatore Queensrÿche ai momenti migliori della sua navigazione. Come "Man The Machine", primo singolo del lavoro, che rieccheggia astutamente certi passaggi di "Operation Mindcrime" senza sfociare nel riciclo, così gli episodi emozionanti ("Propaganda Fashion", "Inner Unrest", la deliziosamente prog "Launder The Coscience") non mancano. I Queensrÿche, più di molte altre band anni '80, meritano di godere di un ritorno di fiamma, anche perché hanno pagato salato - proprio loro che sono originari di Seattle - il cambio di gusto provocato ai primi '90 dal dilagare del grunge. Le migliori frecce nel loro arco, le scoccano quando mescolano sapientemente schiaffo e carezza, come in "Dark Reverie", che contiene uno dei più decisi interventi di tastiera in un album che ne usa meno del solito, o nella ruvida "Bent" trapunta di twin guitars e scale arabe. 


Da segnalare l'assenza in studio dello storico batterista, polistrumentista e orchestratore Scott Rockenfield, in ritiro sabbatico dal 2017 per dedicarsi alla famiglia. Lo si rivedrà forse nel tour promozionale europeo, ma per ora nessuna conferma dalla base. L'onere della batteria ricade (in studio, s'intende) quindi su La Torre e ulteriore plauso al suo ottimo lavoro dietro le pelli che si innesta egregiamente sullo stile di Rockenfield, tanto che è difficile accorgersi della differenza. Dietro la consolle, ancora Zeuss, come nel precedente lavoro, offre una prestazione sicura e di gran resa che non deluderà nessuno. Insomma, "The Verdict" ha tutte le carte in regola per riservarsi un cantuccio nel cuore di ogni seguace della band col primo metal umlaut della storia.





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