The Verve
Urban Hymns

1997, Virgin Records
Britpop

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 29/09/17

Nei mesi in cui i The Verve esordivano nell'arena musicale britannica, in un momento ove gruppi quali Carter USM e Senser rastrellavano favori di critica e pubblico, il giornalismo di settore ribattezzò Richard Ashcroft "Mad Richard". Conseguenza di dichiarazioni eccentriche e pepate:

 

"I hate indie music."

 

Profetico e narciso, la fama di personaggio fuori dagli schemi si rafforza in quel particolare 1993: "Sono immerso in una musica eccezionale: Funkadelic, Can, Sly Stone, Neil Young, The Stones. Jazz. Posso elencarti 50 band che stanno andando bene oggigiorno ma che in due anni saranno dimenticate. La storia le dimenticherà. Ma la storia ha un posto per noi. Ci potranno volere tre album ma ce la faremo."

 

E aveva ragione. Mille giorni dopo nessuno oserà definirlo pazzo: il volto scarno e corrucciato del ragazzo di Wigan accede nella galleria storica dei ritratti più significativi (e scorbutici) della scena rock mondiale.

 

Dopo l'ottimo esordio di "Storm In Heaven" (1993), figlio delle eteree distorsioni in feedback dei My Bloody Valentine e la crescita visibile nell'epico "Northern Soul" (1995), la band si spacca. Il burnout psicofisico di Ashcroft e McCrab, originato da un utilizzo di droghe in quantità industriale, costringe il quartetto al silenzio. Tuttavia la pausa dura lo spazio di un mattino: l'aggiunta del nuovo membro Simon Tong espande le possibilità espressive della band e ne amplifica lo spettro sonoro consueto.

 

Dream pop, shoegaze, psichedelia, pulsioni hendrixiane, aperture melodiche, riverberi ambient, loop euforici, supersonici muri di suoni gallagheriani, arpeggi classici. Le abili pennellate di "Urban Hymns" (1997), soundtrack alternativa dell'Inghilterra di fine millennio, si affiancano a "Be Here Now" degli Oasis e "Ok Computer" dei Radiohead: anno memorabile per la terra d'Albione.

 

"Bitter Sweet Simphony" bascula intensa tra ferocia emotiva e destrezza melodica: il riff degli Stones rielaborato in chiave sinfonica diviene pilastro imprescindibile per un anthem generazionale ammaliante e carico di pathos. Milioni di outsiders chiamati ad adunarsi prima della dolcezza di "Sonnet": stringhe spazzolate frustano il placido ritmo, il suo ondeggiare gradatamente trasmigra in un climax nebbioso. "Sinking faster than a boat without a hull, dreaming about about the day I can see you by my side... Yes, there's love if you want it": i gemiti nasali di Ashcroft toccano corde profonde.

 

L'aura dolce dell'abbrivio viene spazzata via da "The Rolling People": sostanze chimiche e umanità ruzzolante le armi pericolose degli anglosassoni e un finale capriccioso memore di controllate esplosioni zeppeliniane. Strada aperta per "The Drugs Don't Work", capace di catturare, con precisione cinematografica, un istante di romantica farmacologia. Quinto brano, quinto cambio di velocità: in "Catching The Butterfly", pianura mistica visitata l'ultima volta nel disco di debutto, la coda metallica delle chitarre cita i Joy Division in un trip lisergico velato di fredde luci elettriche. Ma è tempo di un interludio.

 

La dilatata "Neon Wilderness", con un intro di un paio di minuti alla "Mojo Pin", funge da leggiadro spartiacque, considerato il sottile mutamento d'umore nella seconda metà del platter. Infatti la sola "This Time", pezzo da Marvin Gaye in acido, sarebbe inadatto esclusivamente in acustico: i sei brani rimanenti mostrano legami ereditari con il tempo trascorso da Ashcroft in solitudine, forse sprofondato su un divano, forse attento a contare le stelle dalla cima di una collina. Un tonico spliff pendente dalle labbra perennemente imbronciate lo accompagna nella fumosa meditazione.

 

"Space And Time" caracolla affascinante, franca ammissione di un affaire d'amour andato a rotoli: "We feel numb because we don't see that if we really cared and we really loved think of all the joy we'd share". Migliaia di rapporti rocciosi si frantumano e a casa, anime solitarie nella notte, la riflessione divampa: "We have existence and it's all we share". Se "Weeping Willow" curva malinconica i propri rami, "Lucky Man" rallegra lo spirito, in un'atmosfera di sfidante autoconsapevolezza. Seguono "One Day", alimentata a dovere da inserti organistici e toni fuzzy, e "Velvet Morning", nella quale si incrociano, in un abbraccio vellutato e oscuro, Neil Diamond e Ian McCulloch.

 

Sta quasi per scendere il crepuscolo, ma ecco l'energia di "Come On": guitar work gagliardo, sospensioni da electronic dance beat e il frontman che urla ripetutamente il titolo eponimo. L'ultimo inno urbano, quello definitivo, cala il sipario: di lì a poco i The Verve si scioglieranno, non prima di aver assaporato il frutto agrodolce del successo.

 

"Now the drugs don't work
They just make you worse
But I know I'll see your face again"

 





01. Bitter Sweet Symphony
02. Sonnet
03. The Rolling People
04. The Drugs Don't Work
05. Catching The Butterfly
06. Neon Wilderness
07. Space And Time
08. Weeping Willow
09. Lucky Man
10. One Day
11. This Time
12. Velvet Morning
13. Come On

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