The Vintage Caravan
Arrival

2015, Nuclear Blast
Psychedelic Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 18/05/15

Ricordo che all'età di undici anni ero soddisfattissimo di aver completato il quinto episodio di Crash Bandicoot al 200%. Mi sembrava un traguardo disumano, nella sua matematica insensatezza. Adesso fate anche voi mente locale e cercate di ricordare cosa avete fatto di importante a quell'età, anche più semplicemente cercate di ricordarvi cosa ascoltavate a quell'età. Terminata questa retrospettiva che mi auguro abbia in qualche modo giovato alla vostra autostima più di quanto abbia fatto alla mia, fate caso all'anno di nascita del vocalist-chitarrista-compositore di questi The Vintage Caravan: 1994. E fate anche caso al fatto che "Arrival" è il terzo album della band, a dieci anni da un esordio che la lanciò così tanto in alto da farla approdare presto sotto la calda ala protettrice di nientemeno che Nuclear Blast.

Superato lo shock, ecco un po' di dati su quello che questo trio -che proviene dalla prolifica Islanda ma è ben lontano dal fare, come ci si potrebbe aspettare, cose da hipster- incide sui propri dischetti: è un'interessantissima mistura di hard rock, quello di una volta e in tutte le sue sfumature, con riff che sembrano catapultati ai nostri giorni direttamente dagli anni '70 ("Monolith", un nome una garanzia). C'è una dose gigantesca di psichedelia, sottile ed entusiasmante, il rodato e sempre affascinante incontro di un blues vaneggiante e di educati effettini sulle chitarre lanciate in apparentemente interminabili virtuosismi. C'è un pizzico (ma proprio un pizzico) di stoner/grunge abrasivo - talvolta nella voce e nei giochi corali che la accompagnano, spesso anche nelle accordature ribassate, e in un invasivo rumore in feedback che sporca tantissimo la sensazione sonora generale. C'è una parvenza di Mastodoniano esotismo, per un sound che si mantiene sempre particolare, ipnotico, anticonvenzionale.

Si fa caciara in "Arrival", che è un disco che lascia poco respiro, tra cori da sottolineare con teste in headbanging e birre al cielo, come succede in "Babylon" e in "Shaken Beliefs". Ma ci si sa fare anche contemplativi (con una voce che ha un carico di pathos non indifferente, ricordando un po' la cinematicità dei compagni di etichetta Graveyard) in lunghe semi-ballate come "Innerverse", la quale si concede una prima, delicata e atmosferica metà per poi lanciarsi in un delirante bridge di riff schiacciasassi e tasterine prog, oppure nelle spettrali progressioni doomy della suggestiva "Eclipsed". E si trova in chiusura all'album un pezzo di quelli che ci si sbilancia a definire "capolavori", uno di quelli che messo in portfolio fa effettivamente diventare grandi: i sei minuti di "Winter Queen" avanzano, tra battute durissime in tempi lenti e roboanti echi sui ritornelli, minuti di doppi assoli asimmetrici di basso e chitarra e di epici sospirati cori a tante voci.

E' un disco completo, insomma, ma che ha un impatto d'insieme talmente bestiale che rende difficile concentrarsi sul singolo dettaglio, obbligando ad infinite ripetizioni. Un disco maturo, ma che ha ancora -ovviamente- quel tocco di giovanile spacconaggine che porta a sembrare autentici e spontanei, e mai leziosi, anche quando le divagazioni strumentali superano il limite normalmente accettabile. Sostanzialmente, se avete un'inclinazione naturale per i chitarroni, non avete alcuna scusa: fatelo vostro. E ascoltateli, riascoltateli, invidiateli, adorateli.



Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool