The Afghan Whigs
Do To The Beast

2014, Sub Pop
Alternative Rock

I tormenti mai sopiti di Greg Dulli riaprono una finestra sulla metà degli anni Novanta
Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 03/05/14

1988 e rotti: rigurgiti di punk imbastardito da pennellate metalliche, accenni di alternative - similare a quello che i Jane's Addiction stavano già proponendo in qualche altro stato americano - e prototipi di grunge dalla grana spessa, grossolana, sfibrata. Tutti insieme. Mondi diversi che trovavano una conciliazione nel grigio rock degli Afghan Whigs, che si incasellavano prima nello sgraziato e maldestro mosaico "Big Top Halloween", che venivano poi consegnati agli annali dalla travolgente grazia di un "Gentlemen" prima, di un "Black Love" poi.

 

Era una risposta personale, timida e intimamente fragile a un underground che stava straripando dai suoi localini di competenza, per prendere casa nella moda, nei palinsesti televisivi. Una risposta di una band che nel grande pentolone del mainstream non si tuffò mai, restando relegata - forse per sfortuna, forse per sua precisa scelta - in una piccola e ombrosa nicchia, il tutto fin quando una serie di cosucce comincianti per "d" (depressioni, distillati, droghe) e qualche causa legale di troppo la portarono definitivamente alla deriva. Risultato: smantellamento e ritorno (in sordina, ma sospinto dalla saggia mano della Sub Pop) a ben sedici anni dalle ultime testimonianze.

 

Con quella coriacea saggezza costruitasi da chi con i turbamenti alla fine c'è sceso a patti, e con una levità ed un'eleganza ovviamente precluse a un passato da giovani grunger, "Do To The Beast" mostra subito d'essere esattamente ciò che ci si aspetterebbe: il ritornare a sbrogliare le contorte fila di un lungo discorso lasciato in sospeso, ma ridando agli struggimenti di una vita una forma più posata e più matura e una voce più saggia e rauca, nella quale dell'esuberanza degli esordi restano soltanto sparuti echi. Non traggano in inganno, dunque, i cazzotti hard rock della rocciosa opener "Parked Outside" o le seducenti sviolinate dal sapore d'India dell'up-tempo "Matamoros" (peccato soltanto per l'ormai ristrettissimo range vocale di Greg Dulli, talvolta innegabilmente forzato e sgradevolmente stridulo): non sono altro che blande minacce a vuoto, stanchi residui di riottosità. Si ricerchi piuttosto l'anima dell'album nell'onirismo in salsa western e nelle distese vocals del singolo "Algiers", nella drammatica consapevolezza della perdita d'un amore raccontata tra i violini e il piano di "It Kills", nella lacrimosa e angosciosa sconfitta narrata nella drammatica "These Sticks".

 

Sprovvisto forse di hit da consegnare agli annali ma al tempo stesso del tutto privo di note stonate, "Do To The Beast" è un album spontaneo, sanguigno, vibrante di sincera emotività: una finestra dritta sulla metà degli anni '90 aperta da una band capace di abbracciare la modernità senza avere l'esigenza spasmodica di reinventarsi, di far provare un ampio spettro di devastanti emozioni senza mai abbaiare o farsi sguaiata. Cari afgani, bentornati: sappiamo già che non potrà mai avvenire, ma ci auguriamo che l'intero mondo del rock possa un giorno prendere esempio dalla vostra compostezza.





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