Esce questa settimana il secondo disco targato The Monkey Wheater, trio piemontese dalle aspirazioni ancora da formazione emergente che però, sulla carta, pare già aver esaurito quelle che sono le aspettative di ogni musicista in erba, ed è proprio sbirciandone la biografia che ci si rende conto di quanto tali aspettative siano culminate in una sorta di effetto dinamite: dopo l’esordio di due anni fa con “Apple Meaning”, e la conseguente grande risposta della critica nazionale, aprono i Kasabian e, in inverno, i Vaccines. Una primavera vissuta su palchi condisi con vari nomi della musica Indie italiana per approdare a Budapest e suonare allo Sziget, per poi tornare in patria ed aprire gli Skunk Anansie. Due anni da favola, da miracolo, sulle ali dell’entusiasmo di un disco, quello della mela beatelsiana, che miscelava Pop e classicismo con un risultato, alla luce dei fatti, straordinario. La carica è esplosa. E ora?
Il nuovo “The Hodja’s Hook” nasce come l’inevitabile tentativo di bissare il successo dell’esordio, ma passa per brutta copia di un progetto poco ambizioso, stanco in partenza: la miscela stavolta è più concreta dal punto di vista sonoro, in un incontro scivoloso di Garage e sprazzi di Punk elementare e timido, ma stilisticamente vuota. In poco più di mezz’ora , le undici canzoni si lasciano ascoltare senza provocare, e senza deludere individualmente, perchè seppur monotone rimangono fedeli ad una impronta lineare e composta, quella dei riff e dei giovani power chords. Manca il singolo, la spinta del ritmo incalzante che Miky The Rooster sa dare, e un minimo di collegamento in post produzione tra le tracce freddamente accostate le une alle altre. Note positive dai giochi ai microfoni di Jolly e Paul, musicisti simmetrici dai toni vocali molto differenti e per questo orecchiabili: è questo l’unico elemento davvero entusiasante di un album spento, che effettivamente pare una compilation di b-sides.
Sperando che l’entusiasmo e la creatività dei Monkey Wheater non si siano già esauriti di fronte agli spettatori dei Kasabian, l’augurio per i tre è quello di riprendere a fare musica, passionale e schietta, di cui l’Italia giovane ha ancora bisogno. Per ora “The Hodja’s Hook” rimane una piccola delusione, come se il grande successo raccolto con aperture straordinarie abbia distratto anzichè giovato, affievolendo l’estro e il rinnovamento della band.