The Old Wind
Feast On Your Gone

2013, Pelagic Records
Postcore

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 04/04/13

Tomas Liljedahl (già Hallbom), voce dei defunti Breach, torna finalmente a cimentarsi con una prova in studio dopo anni di silenzio: ecco nascere il progetto The Old Wind. Il vento del nord si scatena in tutta la sua aspra freddezza nei sei pezzi che compongono “Feast On Your Gone”, fulgido esempio di post-hardcore/metal impregnato di atmosfere da brivido, come mamma Svezia comanda. Pensato all'inizio come semplice esperienza in studio di registrazione, la one-man band The Old Wind diventa presto un vero gruppo, per potersi esprimere anche nella dimensione live. Tomas recluta allora per l'occasione un paio di altri ex-Breach, Karl Daniel Lide'n dei Vaka alla batteria e Robin Staps, leader dei The Ocean nonché capomastro della Pelagic Records – e uno dei fan più accaniti del combo svedese, considerato come la band più importante della sua esistenza.

Non aspettatevi i Breach parte seconda, però. La voce di Tomas è un filo conduttore tra le due esperienze, e resta il tratto distintivo delle sue creature musicali, ma a parte questa e altre piccole sfumature, le somiglianze non sono così marcate. I The Old Wind sono molto più oscuri e presentano delle chiare tendenze verso sonorità doom (quasi-black) atmosferiche, con un andamento oppressivo ed asfissiante. Manca, in sostanza, tutta la parte post-rock e simil-punk dei Breach, i momenti di respiro, i break puliti ed arpeggiati che donano tutto un altro tipo di atmosfera. I pezzi sono molto dilatati, lenti e cadenzati, perché solo così Tomas può trasmettere i suoi demoni interiori.

Qualitativamente parlando, il tocco di chi ha scritto la storia della scena post- e ha contribuito a creare il movimento esploso poi negli ultimi anni si sente eccome. Se la musica ha come prima missione quella di scatenare le emozioni dell'ascoltatore, “Feast On Your Gone” in questo senso centra il bersaglio con fredda precisione. Senza la pur minima apertura alla melodia, ci ritroviamo disorientati, e veniamo proiettati per davvero in una landa desolata del nord della Svezia, nudi come vermi, in balia del vento che penetra come un coltello fin dentro le ossa. Se “Kollapse” ci tormentava l'anima facendoci credere di essere al sicuro (ricordate quel maledetto glockenspiel finale?), stavolta Tomas non gioca affatto e ci catapulta direttamente in un incubo.

La musica come elemento culturale al massimo grado: come già detto, meglio di una fotografia, di un quadro o di una didascalia, questi The Old Wind sanno rappresentare la terra scandinava in maniera perfetta. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dall'immaginazione; ma ricordatevi di svegliarvi in tempo, prima di restare congelati per sempre e finire come Jack in “Shining”.



01. In fields

02. I'm dead

03. Raveneye

04. The old wind

05. Spears of a thousand

06. Reign

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