Seguito dell’omonimo album di debutto del 2015, “Labbrador” è il secondo nascituro in casa Thebuckle. Undici tracce per 44 minuti di stoner dove due soli strumenti si intessono di amplificatori e microfoni a creare melodie dinamiche e magnificamente e incessantemente distorte. Il martellare dei tamburi di Maxim, le serie di riff pneumatici della chitarra e la voce violenta di Andrea non permettono all’ascoltatore di avvertire il bisogno di ulteriori note o preludi musicali che non siano già racchiusi in questa prima compattezza di distruzione alchemica.
Di sfondo abbiamo i Kyuss. Il duo dei Thebuckle ci guida in salita e in discesa per paesaggi brulli, quasi deserti. Siamo in Arizona, in automobile con i finestrini abbassati. Il monolite che esce dai nastri di “Labbrador” è la roccia del deserto. Il sole picchia, non abbiamo acqua a sufficienza e ciononostante il tappeto sonoro steso dai Thebuckle, di lievi reminiscenze che vanno dall’hard rock britannico dei Led Zeppelin al southern rock dei Queens Of The Stone Age, allevia le nostre pene.
Non siamo di fronte a grandi invenzioni o adattamenti, bensì di fronte a una nuova miscela, originale in quanto di fattura italiana, di grunge e desert rock con parti vocali evocative e suggestive quando non effettate in maniera massiccia ("Evil Sky", "Goin' Home").
Diretti e senza fronzoli, i Thebuckle non tediano. Racchiudono il sap[e]ore degli anni ’90 e quel che di lì nacque nei decenni a seguire inebriandoci di una nuova brezza dal carattere liberatorio.