Accept
Too Mean To Die

2020, Nuclear Blast
Heavy Metal

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 25/01/21

Laddove "The Rise Of Chaos" (2017) mostrava degli Accept in discreta forma, questo "Too Mean To Die" ne conferma sostanzialmente la solidità, nonostante si addensino ombre di fisiologico calo. L'abbandono, poi, dello storico bassista e co-fondatore della band Peter Baltes, rimpiazzato dal comunque navigato Martin Motnik (Darkseed, The Roxx), porta con sè una serie di problematiche, non ultimo un nuovo rimescolamento della line-up, con gli annessi e i connessi del caso. I teutonici a stelle strisce, quasi per compensazione, alzano la posta, aggiungendo alla formazione un terzo chitarrista, Philip Shouse, già sostituto momentaneo di Uwe Lullis durante il Symphonic Terror Tour.

Alla fin fine l'album, prodotto da un Andy Sneap che ha il pregio di infilare ogni nota al posto giusto e il difetto di rendere identici i lavori a cui mette mano, trasuda sì l'abituale heavy metal roccioso e old school che ci si aspetta dal combo, ma sfrondato di pesantezza e più ammiccante del consueto all'hard rock: qualcosa di leggermente diverso dell'ennesima variazione sul tema di quel "Blood Of The Nations" (2010) che segnò la brillante ripartenza del gruppo dopo lo scioglimento e al quale sono legati, dal punto di vista stilistico, gli album successivi.

Nonostante la grande esperienza degli attori in gioco, tocca comunque alla vocalità ruggente di Mark Tornillo e alla sei corde oliata di Wolf Hoffmann, ormai deus ex machina quasi assoluto del moniker, tenere le redini del disco, con il primo che timbra di vetriolo i tanti momenti à la AC/DC della tracklist, e il secondo sempre abile nell'inserire all'interno del songwriting raffinati frammenti di musica classica (Beethoven in "Symphony Of Pain", l'instrumental orientaleggiante "Samson And Dalilah" basata sulla "Sinfonia n. 9" di Antonín Leopold Dvořák). Il lotto, pur privo di picchi compositivi e di bordate granitiche vecchia maniera, risulta gradevole, divertente e finanche abbastanza eterogeneo: su una mobile base di acciaio fuso si alternano, dunque, up-tempo contagiosi ("Zombie Apocalypse", "Too Mean To Die", "Not My Problem"), cavalcate arrembanti dal taglio maideniano ("No Ones Master"), sbirciate radio friendly ("Overnight Sensation", "Sucks To Be You"), una ballad, "The Best Yet Is Come", che sbandiera coraggiosamente ottimismo in un frangente temporale poco adatto ai sorrisi. 

Qualche passaggio a vuoto (la parentesi atmosferica "The Undertaker"), un'epicheggiante "How Do We Sleep" che sembra tratta dal repertorio meno brillante di Grave Digger e Running Wild e la parziale delusione riguardo l'impatto delle tre asce, marginale se consideriamo la potenza di fuoco messa in campo, pongono "Too Mean To Die" un gradino al di sotto del predecessore, specialmente in termini di energia e veemenza. Eppure gli Accept restano ancora sul pezzo, in barba agli anni di carriera e a un'artiglieria un po' spuntata.




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